di ENZA DELL’ACQUA
Limbadi. Già prima delle elezioni la stampa ha giustamente informato in merito agli intrecci familiari e amicali di alcuni candidati in corsa per gli scranni consiliari. Sono state delineate le figure degli aspiranti sindaci, Rosalba Sesto e Pantaleone Mercuri. Un atto giornalisticamente doveroso se parliamo di un contesto fortemente influenzato dal clan Mancuso e di un consiglio comunale già sciolto per infiltrazioni mafiose. Trovare legami “controindicati” è semplice in un paese di poco più di tremila abitanti in cui il settanta per cento delle persone è legato alla ramificatissima famiglia dei Mancuso. Potremmo riempire intere pagine di altri scottanti collegamenti, finora non emersi, tra i consiglieri e soggetti pregiudicati. Ad esempio, Vincenzo Lentini, che ha conquistato uno scranno in consiglio con 153 preferenze. Il neo consigliere di maggioranza non è certo nuovo alla politica: infatti, è già stato vicesindaco con il dimissionario Giuseppe Crudo.

Ma Lentini è anche il cognato di Fabio Calù, condannato a 14 anni di carcere e 5 mila euro di multa, 20 anni in primo grado, per associazione a delinquere a seguito dell’operazione denominata “Barracuda”. Uno che a Limbadi pare venga spesso. Nulla si è ancora detto dell’assessore al Bilancio Alessandra Limardo, nipote di Francesco Naso, 76 anni, accusato del reato di associazione mafiosa nell’ambito di Rinascita Scott.

E nemmeno di Simona Romano, assessore alle Politiche sociali, cugina di Vincenzo Timpano, condannato nel processo Dinasty per associazione mafiosa.
Insomma, una storia densa e ricca di sfumature, dove non tutto il quadro storico-ambientale è emerso completamente. Delle foto sfoggiate dal consigliere Giuseppe Manco, sul suo profilo social, in cui è ritratto in compagnia di alcuni esponenti del clan Mancuso, si è già detto. Così come si è parlato della concatenazione familiare di Rosalba Sesto, ora a capo dei consiglieri di minoranza, con i boss di Africo.
SINDACI E CONSIGLIERI PEDINE DI GIOCATORI SOSPETTBILI E INSOSPETTABILI
Ma il quadro fin qui prodotto, la fittissima tela di legami e trame familiari, di amici e comparaggi, basta ad offrire uno scenario esaustivo dell’intero macrocosmo in cui si sviluppano certe dinamiche in cui probabilmente la ndrangheta è solo una parte? Limbadi, in fondo, così come Nicotera, e come tutti i piccoli comuni infestati dalla malapianta, rappresentano, probabilmente, l’ultimo anello di un enorme e ben organizzato sistema di potere che oggi viene definita “massomafia”. Ogni comune, nel vibonese, non può essere considerato una realtà a sè stante, bensì un quid facente parte di una rete che mira al controllo capillare del territorio e che, da qualche tempo, si sta muovendo anche per egemonizzare la cosiddetta antimafia.
Lo svuotamento di uno dei vasi comunicanti non può significare la vittoria dello Stato sulla mafia, in quanto le cosche non operano a compartimenti stagni, bensì tramite una maglia di collegamenti che, a ragion veduta, rappresentano la sua forza. Restando nella metafora dell’idraulica, riempire quel vaso comunicante rimasto vuoto è solo una questione di tempo. La cosca Mancuso, ad esempio, è storicamente una gemmazione della cosca dei Piromalli, che per decenni è stata leader indiscussa della Piana di Gioia Tauro. La mafia è un fenomeno unitario, quel vuoto di potere sarà subito riempito. Tutte le amministrazioni comunali in odor di mafia sono espressione di questa teoria.

Anche l’amministrazione Mercuri potrebbe esserlo. E proprio per questo motivo la conta dei soggetti collegati ai Mancuso è importante ma limitativa, nel senso che potrebbe indurci a focalizzarci sulle pedine senza guardare in faccia i veri giocatori. Non bisogna cadere nella tentazione di pensare che l’amministrazione sia centrale; essa è sicuramente lo specchietto di più insospettabili riflessi; ma è su chi regge le fila che bisognerebbe concentrarsi maggiormente: ovvero una struttura esterna costituita, oltre che dalle cosche, da alti funzionari dello Stato, uomini politici, professionisti (notai, avvocati, commercialisti) e anche, da giornalisti compiacenti e omertosi. Un’amministrazione di stampo mafioso è, in pratica, la garanzia che il flusso di denaro governato dalla massomafia non venga mai interrotto, e chiunque provi ad intralciarne il circuito viene falciato come un filo d’erba. Il potere di questi signori non risiede in una superiorità economica e militare, bensì nel fatto che sono in grado di ricattare lo Stato. Una pressione ricattatoria che trova le sue origini nel fatto che la ndrangheta, così come la mafia siciliana, ha preso parte a molti frangenti oscuri della storia italiana, incluso lo stragismo rosso. Negli anni Settanta nel covo delle Brigate Rosse a “Cascinale di Vescovio” vennero ritrovati dei documenti rubati nella Valtur di Nicotera Marina, struttura turistica che all’epoca dei fatti era al massimo del suo splendore. Pare che all’interno del villaggio vacanze si concertassero strategie e si reclutassero soldati. Nel gruppo di fuoco dei rapinatori di Moro sembra ci fosse qualche figliolo di famiglia malavitosa locale.

E lo stesso dicasi dello stragismo nero. Gli incontri tra gli esponenti della banda della Magliana e i boss calabresi (Paolo De Stefano, Peppe Piromalli, Pasquale Condello, per citarne alcuni) sono un fatto notorio. Così come il legame tra il clan De Stefano e il terrorista neofascista Franco Freda, nonchè il sostegno dello stesso clan, nella rivolta di Reggio Calabria del 1970, alla frangia combattente di estrema destra.

A questa storia già articolata si unisce la rivelazione di alcuni pentiti secondo i quali l’avvocato Giorgio De Stefano (appartenente all’omonimo clan) ucciso nel ’77, è stato il contatto tra ‘ndrangheta e servizi segreti. Sullo sfondo Mafia Capitale e la figura enigmatica di Massimo Carminati e i suoi legami, oltre che con l’estremismo nero, con la ndrangheta calabrese.
Gli interessi delle cosche, insomma, spesso si intrecciano con gli interessi dello Stato, in un Paese come l’Italia, contesa dalle superpotenze mondiali (negli anni 70-80 da Russia e Stati Uniti), a causa della sua posizione strategica nel Mediterraneo. Superpotenze che, in Italia, si sono spesso avvalse di strutture eversive autoctone, di apparati parastatali, per così dire, atte a destabilizzare il più importante Paese del Mediterraneo. Chiusa questa breve parentesi, torniamo nella minuscola Limbadi.
IL CAPOSTIPITE DEL CLAN “U ZI CICCIO MANCUSO“

Che sia il feudo dei Mancuso lo si sa almeno dal 1983, quando il comune veniva sciolto per mafia senza che esistesse ancora una specifica legge in merito. Ciò a causa della presenza tra gli eletti Francesco Mancuso, scomparso da anni e all’epoca 54enne. La lista si chiamava “Ramoscello d’ulivo” e lui, ritenuto il capostipite dell’omonimo clan, fu addirittura il primo degli eletti. Non un uomo banale, ma uno con una storia politica vera: da ragazzo nel PCI di Quirino Ledda, con il quale ovviamente avrà discusso e fatto politica, entrò anche nella Federterra. Riusciva a coordinare lavoratori, aveva idee e carisma in un territorio dove il latifondo di “gnuri” veniva progressivamente intaccato da una imprenditoria rampante e da una nuova, mediocre quanto fragile, borghesia. Che, nella sua mediocrità, appunto, sarebbe stata il metronomo del “mondo di mezzo” di questa fetta del vibonese, per citare una citazione del boss Carminati, “disconosciuto” tale dalla magistratura sotto enormi pressioni politico-istituzionali a presidio della Mammona romana. Ah, la citazione è di Tolkien, non del “cecato”.
Nel latifondismo, nella tendenza all’accentramento, del “chi non ha non è”, si dice in Calabria e non a torto, va vista anche una ragione genetica della ‘ndrangheta. E, nello specifico di Limbadi, un’altra ragione fu sicuramente una cava che ha vomitato per anni materiale per il porto della Gioia Tauro degli incontrastati e incontrastabili Piromalli che diede il La all’epopea criminale dei Mancuso, avversata, sino a pochi mesi fa, da un solo PM a Vibo Valentia, a tratti piuttosto “claudicante” carte alla mano, e da pochi Carabinieri. Che tutt’al più potevano e possono prendere appunti e raccogliere firme. Un copione con molti e drammatici episodi, non ultimo l’omicidio di Matteo Vinci.

Quindi, quale siano le specificità del territorio lo si sapeva e lo si sa da decenni. Da qui pensare che ci sia una propensione genetica dei limbadesi a delinquere è ovviamente fantasioso, ma c’è un retaggio antropologico e culturale che ha favorito l’attecchimento del fenomeno. Che nella sponda nicoterese ha trovato il suo definitivo consolidamento, anche sociale.
LA LUNGA FAIDA DEGLI ANTIMAFIOSI INTORNO ALL’UNIVERSITA’ ANTIMAFIA: TUTTI I PROTAGONISTI.
Dopo i primi anni ruggenti della cava va segnalata la sindacatura del comunista Giuseppe Morello, che si contrappose palesemente alla cosca. Così come anche l’attività di alcuni giovani comunisti, come Giacinto Carrieri, che in quegli anni ebbero non poche difficoltà personali. Ma va anche riconosciuto che la lista citata, il “Ramoscello d’Ulivo”, vide anche dei giovani moderati che, pur con un atteggiamento un po’ più timido, segnarono una concreta presenza e dettero un’alternativa concreta agli elettori. Non un fatto scontato.
Poi anni di buio sino ai primi 2000 quando Limbadi sembrava rimanere indenne da scioglimenti e indagini che pure cominciavano a falcidiare alcuni comuni come la vicina Nicotera.

Le antenne dell’antimafia si accendono attorno ad alcuni beni sequestrati alla famiglia Mancuso, poi diventati sede dell’attuale Università Antimafia, come comunemente definita.
Qualcuno afferma sotto la sindacatura di Francescantonio Crudo, dimessosi nel 2014, ma non è così.
É nel 2010, quando vi furono danneggiamenti all’interno di uno dei beni sequestrati che qualcuno si domandò chi custodisse quelle chiavi. A rimetterci fu l’allora sindaco Rosario Spasari, che si dimise. Non chiarì le ragioni, ma erano e sono chiare a tutti: voleva evitare rogne. Quante e quali nessuno potrà mai stabilirlo. Altrove forse vi sarebbe stato uno scioglimento, ma a Limbadi no.
Il tabù stava per rompersi quando, nella sindacatura del dottor Crudo, intervenne la Commissione d’accesso per verificare eventuali infiltrazioni, che furono effettivamente rilevate: il prefetto propose lo scioglimento al Ministro Alfano. Che non controfirmò la proposta, qualcuno mormora per i buoni uffici dell’allora deputato serrese Nazzareno Salerno, uno dei maggiorenti di Forza Italia.

La cosa scatenò le ire della paladina Rosy Bindi, allora presidente della Commissione antimafia, che venne a Limbadi in visita ai beni sequestrati, fulcro e pietra angolare della contesa, senza invitare Crudo e con espressioni non molto gentili per così dire. Il sindaco si dimise.
Ma resta un dubbio: in quella relazione di scioglimento cosa c’era scritto?Sicuramente, con tutte le riserve del mondo per l’istituto giuridico dello scioglimento, le relazioni delle commissioni generalmente forniscono indicazioni molto puntuali e utili. Intanto in quel consiglio figuravano due soggetti, uno all’opposizione e l’altro in maggioranza, presenti anche nell’attuale consiglio. Il primo è Giuseppe Manco, consigliere secondo eletto con l’attuale sindaco Pantaleone Mercuri, finito al centro di una bufera per alcuni scatti con un soggetto controindicato. Il secondo quel Vincenzo Lentini. Di entrambi si è già detto.
Nel giugno del 2015 vince le elezioni contro Rosalba Sesto, attualmente a capo dell’opposizione, il sopra citato Giuseppe Morello. Per inciso Sesto, con Manco, è finita anche lei nel polverone mediatico per la parentela del defunto marito con dei pregiudicati e per una indagine che ha coinvolto il figlio, mai condannato. E, pare, mai nemmeno imputato.
Dopo alcune settimane di stasi, accadde qualcosa di strano e, forse, il vero punto di svolta della storia recente di Limbadi: una anomala organizzazione della cosiddetta Università antimafia.
Per farla breve, i beni sequestrati ai Mancuso, che avrebbero dovuto ospitare l’iniziativa, erano stati affidati al Coordinamento Riferimenti di Adriana Musella, una attivista antimafia, invero al pari di Morello. Con il quale sembra ci fossero ottimi rapporti fino a quel momento.
Ebbene, l’amministrazione si arrogò il compito di inaugurare l’Università, o denominata tale, senza coinvolgere Musella ed affidando la direzione scientifica al giornalista di Repubblica e scrittore limbadese Pantaleone Sergi.

Questa diede la stura ad una feroce polemica con Morello e Sergi, con pesantissime accuse, tra le quali l’affidamento del catering dell’inaugurazione, mai celebratasi, ad una ditta di Cosenza in modo ritenuto sospetto e non conforme a legge. Va qui ricordato che il Ministero aveva messo a disposizione 30mila euro per l’evento.
Da qui una querelle infinita che attirò l’attenzione del governo, presente in più occasioni a Limbadi nella persona del viceministro Filippo Bubbico, venuto a dirimere la contesa al tavolo del prefetto di Vibo Valentia Giovanni Bruno. Presenti tutti i protagonisti, anche Sergi. Per gli uni Musella e Riferimenti erano inadeguati al progetto, per gli altri Morello e Sergi due che stavano commettendo un grave abuso.
Alla fine prevalse Musella, che fece partire il progetto con un comitato scientifico autorevole presieduto dal magistrato Marisa Manzini, una che aveva messo alla sbarra i Mancuso. All’inaugurazione, poi avvenuta nel 2016, fu presente sempre Bubbico a suggellare il risultato raggiunto.
Una pace apparente, perché nel frattempo cominciavano ad emergere i rilievi della parlamentare della commissione antimafia Rosanna Scopelliti, a carico di Domenica Gurzì, assessore di Morello. Quest’ultima aveva chiesto voti, in un’altra tornata, ad un boss dei Mancuso. Morello ne usciva bene perché dalle intercettazioni ambientali non veniva ritenuto soggetto “simpatico”, per così dire, al citato boss. Tuttavia non prese le distanze dalla Gurzì, anzi, e lì ha probabilmente posto fine alla sua esperienza politica, non irrilevante in questo lembo di meridione.
Nel mentre, continuavano gli strali di Riferimenti all’indirizzo tanto di Morello quanto del giornalista di Repubblica Pantaleone Sergi.
Musella venne travolta, un mero dato di cronaca, da una nota inchiesta di un’altra giornalista di Repubblica, Alessia Candito, sul ritenuto impiego discutibile, diciamo così, del denaro pubblico dato per alcuni progetti antimafia all’attivista di Riferimenti. Che si dimise, restituendo le chiavi, a seguito di una inchiesta della procura di Reggio Calabria.
En passant va detto che la componente studentesca nel progetto di Musella era quella dell’istituto “Piria” di Rosarno, della preside Mariarosaria Russo, che in Riferimenti aveva un ruolo preminente. La stessa preside, finita al centro della bufera con Musella, anche per essere la sorella di Antonio Russo, pentito ed ex truffatore al soldo di Piromalli e Molè. Invero la preside Russo rivendica di averlo denunciato il fratello, un uomo che, va sottolineato, si relazionava molto da vicino con ambienti della massoneria deviata, egemoni nel vibonese, Nicotera e Limbadi in testa. Almeno prima dell’avvento di Nicola Gratteri.

L’amministrazione Morello è stata sciolta per mafia e Musella è finita fuorigioco per l’inchiesta.
Due personaggi, due storie, due mondi che comunicavano fino a scontrarsi in maniera deflagrante. Due pianeti attorno ai quali ruotavano “satelliti” autorevoli e indiscutibili, ovviamente.
A dirimere la controversia nella faida antimafiosa interviene indirettamente l’associazione Libera con il referente regionale Don Ennio Stamile, in veste di presidente dell’associazione “San Benedetto Abate” di Cetraro, poi diventata affidataria dell’Università, con i buoni uffici, “rivendicati”, della commissione prefettizia guidata da Antonio Reppucci.
La Chiesa interviene, con la sua presunta, neutralità a garantire la pace tra i virtuosi contendenti. Ma sulla neutralità del Vaticano, con le sue misteriose banche, c’è tutto un capitolo da svolgere a parte e su questo contropotere interverrà diffusamente.

Poi i 18 mesi di commissariamento di Antonio Reppucci che, tra le altre cose, ha rinnovato con la sua commissione la pianta organica dell’ente, affidandosi, come ha riferito espressamente nel corso del primo consiglio comunale di lunedì scorso, a Maria Alati, la segretaria comunale.
Quest’ultima, per completezza di cronaca, è stata notificataria dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, in veste di segretaria comunale pro tempore del comune di Rosarno, a seguito dell’operazione Waterfront, che ha avuto ad oggetto lavori pubblici nella Piana. Il mondo imprenditoriale a braccetto della criminalità organizzata, si è detto. Una fonte anonima, per la cronaca, ci informa tutti gli elementi della pianta organica ha le sue radici oltre Mesima.
INIZIA L’ERA MERCURI ALL’INSEGNA DEL FARISEISMO
Poi l’elezione di Pantaleone Mercuri, biologo finito anche lui sotto i riflettori, per il nipote, Giuseppe Mercuri, indagato per la sua ritenuta vicinanza al clan Mancuso. Impossibile non sottolineare che l’amministrazione Mercuri è partita all’insegna di un duro scontro tra i già citati Vincenzo Lentini e Giuseppe Manco.

Due consiglieri, entrambi aspiranti assessori. Pare che Lentini si sia strenuamente opposto alla concessione della titolarità dell’assessorato al suo collega a causa delle note foto di quest’ultimo con alcuni esponenti del clan Mancuso. Molto salomonicamente il neo sindaco ha scelto di non concedere l’assessorato a nessuno dei due. Ma non si capisce perché i voti di un soggetto con amicizie ritenute discutibili fanno gola, anzi sono determinanti per vincere la partita (Manco ha portato un gruzzoletto di oltre 190 voti), ma poi, una volta raggiunto l’obiettivo, si finge di metterlo in un angolino. Se ti piacciono i voti di Manco, devi prenderti anche lui, e dargli il posto che si è guadagnato, senza inutili ipocrisie. La logica, ammantata di doppiezza e fariseismo, è quella del “voto non olet“, ma il candidato evidentemente olet, e potrebbe far sfigurare l’esecutivo davanti al severo occhio prefettizio.
ControPotere non ha l’ambizione di essere stato esaustivo, ma quella di aver fornito un primo tassello per la ricerca di una più profonda ed inquietante verità. Che ci parla di lotte di potere, di lembi di inchieste che trapelano con tempistiche strane, di notizie che deflagrano all’improvviso. Quando meno te lo aspetti.
LA LUNGA E RAMIFICATA DINASTIA DEI MANCUSO *




L’albero genealogico della famiglia Mancuso è stato tratto dal libro della procuratrice antimafia Marisa Manzini “Fai silenzio ca parrasti assai“, edito da Rubettino.