Dalla movida alle “mascate”, come vengono definiti i ceffoni in dialetto calabrese, il passo è stato breve. A Tropea, capitale della “movida” nel territorio vibonese, sempre più spesso le nottate estive sono animate da risse e tafferugli che vedono protagonisti verosimilmente delle bande in lotta tra loro, apparentemente per futili motivi, come ad esempio uno sguardo di troppo. E così, dopo la mezzanotte, quasi verso le prime luci dell’alba, questi giovani dal temperamento rissoso e con l’innata vocazione di “menar le mani” se le danno di santa ragione. Episodi che hanno come teatro il centro storico, come corso Vittorio Emanuele, il cui percorso conduce alla famosa “balconata”, da cui lo sguardo può catturare l’orizzonte. Ma le azzuffate possono verificarsi ovunque sorga il più banale dei pretesti. Sembra si tratti di vere e proprie camarille rivali che non perdono occasione per sottolineare chi abbia il predominio sul territorio. Molto spesso sono delle piccole gang giunte dai centri limitrofi, ma anche extra provinciali. La parte del leone, però, sembra la detenga un drappello di giovani piuttosto nutrito, forse autoctono: pare siano una quindicina di ragazzi, spesso su di giri e pronti a gettarsi in un’orgia di mascate senza tentennamento alcuno. Tropea, dunque, sta diventando sempre più teatro di scene di violenza urbana assai poco edificanti. Il video che correda questo articolo mostra le immagini catturate da una telecamera la notte tra il 23 e il 24 luglio scorsi. La mega rissa è avvenuta nel centralissimo corso Vittorio Emanuele. Gli schiocchi dei ceffoni fioccavano nell’aria tersa della notte. A farne le spese anche le sedie e i tavolini di un locale, alcuni andati distrutti. Come degli improvvisati spadaccini, i contendenti duellavano a colpi di sedie, lanciandosele contro come se fossero leggere come il polistirolo.
Inutile sottolineare che questi episodi sono deleteri per il turismo di Tropea, e dell’intero territorio in generale. Un interrogativo, però, merita una risposta: questi giovani consacrati ai tafferugli e al vandalismo quali vantaggi potrebbero mai avere dal contribuire ad affossare un territorio già mortificato da una miriade di criticità? Di certo chi mette loro in testa concetti di arroganza, boria e angherie sta creando dei distruttori e dei futuri galeotti, prigionieri della loro sciocca devozione a un mito di violenza e predominio mafioso. Ed è un trend controcorrente per la cittadina turistica, dato che la stessa, al netto di qualche episodio di cronaca, è sempre stata giudicata una cittadina tranquilla, tutta mare, sole e turismo. Cosa sta accadendo dunque nella perla del Tirreno? Questi episodi sono fenomeni del tutto estemporanei, dettati dall’alcool e da qualche spinello di troppo o hanno invece una regia più sofisticata? Una vulgata assai diffusa a queste latitudini narra che episodi come questi sarebbero dei messaggi ben precisi da rivolgere ad un preciso interlocutore. I famosi tafferugli che caratterizzavano le nottate del Casablanca e del Rebus (storiche discoteche del territorio, ormai morte e sepolte e prima ancora confiscate ai Mancuso e ai La Rosa di Tropea) costituivano spesso delle modalità per imporre una “protezione” mafiosa: risse inscenate ad arte, ma con aggressioni e pestaggi reali, destabilizzavano quelle nottate estive, e solo l’occhio vigile di un protettore poteva ristabilire la calma. Ma non solo. Le scorribande di giovani allo sbando e la loro proverbiale furia iconoclasta avevano luogo, in genere, quando uno dei capi finiva in galera. Ma, attenzione: non era la mancanza della guida spirituale a far diventare gli scagnozzi molesti, rissosi e turbolenti. Anzi, quella assenza scatenava un caos razionale e tutt’altro che improvvido sul piano dell’ordine pubblico; era un chiaro messaggio a quell’interlocutore che chiameremo istituzione per mettere in chiaro che il clan deteneva la capacità di regolamentare persino gli istinti maneschi di quei giovinastri funzionali al sistema di controllo e vigilanza, tipica di una criminalità organizzata che ambisce ad essere la vera dominatrice del territorio.

Non è difficile immaginare trattative “Stato-mafia” che hanno come oggetto l’ordine pubblico. Senza rivangare il compromesso che portò alla pax mafiosa, subito dopo gli attentati dinamitardi contro Falcone e Borsellino, c’è un esempio molto recente che non può essere sottaciuto: nel momento in cui il Covid imperversava in Italia seminando morte e terrore decine di boss hanno abbandonato il carcere sotto il naso del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che sembrava impotente di fronte alle scarcerazioni di gente detenuta al 416bis, mentre Francesco Basentini, il direttore del Dap (poi sostituito), un po’ frastornato, un po’ imbarazzato, agiva inspiegabilmente in modo giudicato biasimabile, per usare un eufemismo. L’ordine pubblico va mantenuto, costi quel che costi, e nelle carceri e nelle città, lo Stato lo sa bene, e i mafiosi pure.
Tornando ai vandali della movida, cosa potrebbe accadere se questi disordini dovessero protrarsi ulteriormente nei punti nevralgici del vibonese senza un’adeguata risposta dello Stato? Le forze giovani e sociali dei piccoli paesi vengono spesso irreggimentate nei disegni ndranghetistici: intorno alle cosche ruotano decine di ragazzi, senza grandi prospettive; personaggi in cerca d’autore che mettono a disposizione del clan desiderio di denaro facile e rancore sociale, fresche e perverse energie da spendere senza riserve “per conto di”. D’altro canto, per loro lo Stato è un’astrazione incapace di fornire risposte certe, quell’entità schizofrenica che, se da un lato, dà risposte giudiziarie (vedi le grandi inchieste di procuratore Nicola Gratteri), dall’altro lato non è disposto a dare risposte politiche sufficienti, e quindi nemmeno materiali e morali se i boss continuano ad essere i deus ex machina della vita di un paese; sono i boss che posseggono il territorio, gli uffici tecnici dei comuni, gli appalti, le votazioni e ogni battito d’ali. Detto en passant: gli scioglimenti dei comuni per mafia sono episodi già messi in conto e destinati a non intaccare gli affari dei boss, mentre il loro ascendente sull’elettorato gode ancora di ottima salute. Di fronte a questo scenario, il giovane, già impregnato di cultura mafiosa, fa presto a scegliere da parte stare; dalla parte sbagliata, certamente, ma è la parte, ai suoi occhi, più presente, attiva, sebbene violenta, dominante e sostanzialmente inattaccabile, perché l’appoggio della politica, e non solo, è garantito.

Una volta c’era l’imprenditoria agricola; ora anch’essa è diventata un campo minato. Se i Mancuso sono disposti a massacrare una persona con una bomba per un pezzo di terra, come fa un giovane a prendersi il territorio e a riappropriarsi dagli spazi abusivamente occupati dai clan senza confrontarsi con personaggi sanguinari e prepotenti? Lo stesso dicasi per poter accedere ai lavori stagionali nei villaggi turistici. I collocatori nelle strutture ricettive devono fare i conti con gli ndranghetisti, che spesso impongono in tali contesti lavorativi delle persone a loro gradite. Questi giovani, senza grandi mezzi culturali e morali, si arrendono ai desiderata della ndrangheta locale: perché è la via più semplice, che garantisce lavoro e prestigio, ma non sanno, quando saltano il fosso, quant’è salato il conto da pagare. Generalmente si giunge in fretta all’arruolamento nella legione di un boss. Nasce così la possibilità di avviare nuove carriere criminali; la mafia ha bisogno di nuove leve, di nuovi soldati, di gente pronta a giurare fedeltà al suo capo. Comuni come Nicotera, Tropea, Joppolo, ed altri ancora, sono aree destinate a diventare oggetto di una nuova strategia di espansione criminale e di ricollocazione di risorse umane negli spazi pubblici. Il denaro deve muoversi; se è stagnante è pericoloso, può essere più facilmente intercettato: servono prestanome e factotum. Servono canali per farlo circolare, in modo che sia più difficile per gli inquirenti individuare il vero detentore del capitale. Servono giovani, teste calde, che vivono di espedienti, di risse, di turbolenza e di innata mafiosità; avidi di denaro e di una assai fraintesa concezione di “rispetto” e successo nella vita. Serve gente sbandata, che già a vent’anni non ha più niente da perdere.