Ho smesso di scrivere per il Quotidiano del Sud esattamente il 29 febbraio del 2020, il giorno in cui, cioè, Gianluca Prestia, semplice redazionale dell’edizione di Vibo Valentia, ha deciso la mia cacciata. Sono stata resa edotta della mia espulsione tramite un messaggio What’sApp, vergato dallo stesso, un messaggio che, come vedremo a breve, ha rivestito l’ufficialità di un esonero a tutti gli effetti, in quanto nient’altro mi è mai stato comunicato dal direttore della testata, Rocco Valenti.

Anzi, il suddetto capo del Quotidiano, ha rivestito il ruolo del Ponzio Pilato della situazione, dato che non ha mai assunto alcuna posizione in termini ufficiali, tanto meno in quelli “ufficiosi”. Per due mesi la mia collaborazione con il giornale è rimasta sospesa, come in un limbo: gli articoli da me inviati non venivano pubblicati, né mi è stato comunicato il perché. Il direttore Rocco Valenti, nel corso di una conversazione, mi chiese semplicemente di astenermi, “per il momento”, dallo scrivere dei pezzi, senza peraltro motivarmi le ragioni di questa disposizione. Semplicemente, mi disse che doveva “valutare” alcune cose che gli erano state segnalate dalla redazione vibonese, verosimilmente, dal signor Prestia, guarda caso il redazionale che mi aveva comunicato che io, da quel giorno (29 febbraio) non avrei più scritto. Ebbene, così è stato.

La decisione di Prestia è stata accolta passivamente dal direttore che ha messo in atto i “desiderata” della redazione vibonese, senza riuscire ad opporsi ai baroni della provincia più mafiosa del Mezzogiorno. Rocco Valenti, infatti, nel corso delle conversazioni telefoniche, mi pregava di pazientare, che avrebbe risolto ogni cosa; in realtà sapeva bene, il direttore, che al volere di Vibo non poteva muovere alcuna obiezione, forse per il semplice fatto che le sue disposizioni sono insindacabili, e lo stesso direttore del giornale non osa mettersi contro certe “giurisdizioni” non scritte, ma efficaci a tutti gli effetti.

Il fatto che io abbia collaborato per sette anni e mezzo con il giornale in questione; il fatto che abbia sempre portato dei pezzi di approfondimento e inchiesta; che abbia dato dignità all’edizione vibonese andando oltre le note stampa, i resoconti delle sagre di paese o delle processioni e i mortificanti “copia/incolla” delle carte della Procura di Vibo, occupandomi dei legami tra mafia e istituzione comunale, e del malaffare che alligna nel territorio dove vivo, evidentemente non ha significato proprio nulla. Anzi, forse proprio questo era un’aggravante,per quanto ho potuto osservare in questi anni: sta bene attenta, l’edizione vibonese, a non mettere le mani dove scorre l’alta tensione, tanto che ormai si è ridotta a bacheca di note autoreferenziali dei vari personaggi politici del territorio, sui quali mai sono state prodotte delle inchieste, ad eccezione della sottoscritta. E ogni volta, per me, far passare un pezzo di inchiesta era una lotta, gravata dal continuo timore di censure e di rimaneggiamenti del testo. In ogni caso, tutti gli articoli dovevano avere l’imprimatur redazionale con tutte le edulcorazioni del caso. Il pretesto per non mettere le mani nel torbido, dovere di un giornalista serio, era sempre motivata dalla paura di essere querelati. Una giustificazione che ormai fa ridere i polli.
I “desiderata” di Vibo.
Ma andiamo ai fatti. Quel 29 febbraio uscì un mio articolo nel quale denunciavo il clamoroso assenteismo degli amministratori del comune nicoterese nelle riunioni di giunta. Una condotta censurabile e lesiva del rispetto delle leggi e dell’elettorato. Il signor Prestia, senza darmi comunicazione alcuna, snaturò completamente il mio pezzo, edulcorandolo di molto, aggiungendo parole che io non avevo mai scritto, di fatto indorando la pillola agli amministratori. Per chi non ne è a conoscenza, un articolo di giornale non può essere modificato senza che l’autore ne sia informato. In pratica, con la mia firma non puoi confezionare il pezzo come piace a te: la proprietà intellettuale non è solo una bella parola, ma un possesso giuridico che non può essere violato o usato a proprio piacimento. Quel giorno io chiesi spiegazione al signor Prestia in merito al motivo per cui avesse manomesso il pezzo senza rendermi edotta dell’iniziativa posta in essere. Quella mia pacifica richiesta è stata occasione per lo stesso di vuotare quel sacco di veleno che chissà da quanto tempo si trascinava dietro. Mi ha insultato e accusato di svariate cose, in un crescendo inarrestabile di parole e di livore. Ma già quasi all’inizio di quel lungo carteggio mi aveva annunciato che io non avrei più scritto per il Quotidiano. La mia colpa? Quella di non essermi fatta trattare di merda dal giornalista “professionista” Gianluca Prestia. Quella per lui fu l’occasione buona di imporsi con il direttore per farmi buttare fuori dal Quotidiano. Da dove nasceva tutta quella incomprensione? Innanzitutto dal fatto che non mi sono mai fatta mettere i piedi sulla testa da nessuno. E la regola vale anche per il Prestia. Ho portato avanti le mie inchieste con coraggio; ho scoperchiato diversi altarini; ho puntato il dito contro amministratori e politici collusi; ho stigmatizzato la condotta opaca di gente alla guida del mio Comune di appartenenza (per ben tre volte sciolto per mafia), anche e soprattutto quando avevo contro quasi un intero paese. E come se non bastasse per far passare i miei pezzi dovevo combattere con la redazione di Vibo che ha il vizietto della censura quando si tratta di pestare i piedi a rappresentanti comunali e politici. Il tempo, poi, mi ha sempre dato ragione. E le cose che io sottolineavo e portavo faticosamente a conoscenza dei cittadini rivelavano che avevo visto giusto. Ma non è stato affatto semplice imporre delle inchieste in un contesto giornalistico pronto a metterti la museruola.
L’indegno sfruttamento dei collaboratori del Quotidiano
E’ necessario inoltre sottolineare la scarsa considerazione con cui sono trattati i collaboratori nel giornale. Considerati come dei galoppini esterni, il loro compito è quello di portare acqua al mulino del giornale; inviare pezzi del territorio di appartenenza, preferibilmente ogni giorno, o quasi, nonostante una sottospecie di contratto contempli che la collaborazione è a totale discrezione del collaboratore. Questi, cioè, non è tenuto a inviare pezzi ogni giorno, in quanto, tale contratto, “esula da qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”; egli, inoltre, può svolgere con “ampia autonomia gli incarichi affidatigli”. “Lo stesso opererà nella sua totale discrezione, senza vincolo né di orario né di presenze, senza soggezione al potere impositivo e/o gerarchico dell’editore, restando nella completa autonomia del collaboratore tempi di intervento e di azione dallo stesso ritenuti opportuni e/o necessari per lo svolgimento degli incarichi suindicati”. “Il collaboratore conseguentemente non osserverà alcun orario di lavoro, non avrà alcun obbligo né di reperibilità né di presenza”.
Ma la realtà è ben diversa: il collaboratore è tenuto ad essere sempre presente e sul pezzo, e guai a bucare qualche notizia. Se si verifica un fatto di cronaca bisogna portarsi tempestivamente sul posto, fare foto, raccogliere informazioni, telefonare ai Carabinieri, et cetera, e sia ben inteso che le spese per spostamenti o telefonate per confezionare un pezzo decente sono tutte esclusivamente a suo carico. Quasi ogni giorno dalla redazione c’è qualcuno che ti chiede di scrivere, perché il giornale deve andare avanti; ai redazionali lo stipendio deve essere garantito, il giornale si deve vendere: anche dieci copie per ogni comune vanno bene per giustificarne l’esistenza ai fini dell’incameramento di finanziamenti pubblici e tirare avanti il carrozzone. Ed è un carrozzone da quale nessuno vuole scendere, visto e considerato che la paga di un redazionale si aggira intorno ai 1800 euro netti, esclusi le domeniche e i festivi, che sono pagati a 100 euro al giorno.
E qual è, invece, il trattamento economico riservato al collaboratore? La sua paga è pari a 0,002 di euro lordi per ogni battuta. Cioè, da quei 0,002 centesimi di euro bisogna detrarre anche le trattenute fiscali e le tasse, può sembrare una barzelletta, ma non lo è. Cosa rimane dunque al povero collaboratore? Ben poca cosa. Ma il fatto ancora più sconcertante è che non viene pagato nemmeno mensilmente, come sarebbe giusto. Se gli va bene, forse, una volta l’anno, ma solo dopo accese proteste, con tanto di minaccia, da parte loro, di posare la penna e far arenare il carrozzone nelle paludi dell’ingiustizia e della scorrettezza nei confronti dei suddetti galoppini. Come quella volta che ci dovevano dei soldi e ci hanno proposto di firmare una specie di accordo se volevamo vederne almeno la metà. Chi, in pratica, doveva incassare mille euro di arretrati (almeno un anno e mezzo di lavoro), accettò che gliene venissero corrisposti cinquecento, or nothing. Ecco, questa è la schiavitù che deve accettare chi vuole collaborare per il Quotidiano. E’ stato, tuttavia, un ruolo che ho accettato, nonostante tutto. Scrivevo non certo per i soldi, che non arrivavano mai. Ma per il piacere di scrivere e per la mia volontà di far conoscere le problematiche del territorio in cui vivo. Una predisposizione e un’abnegazione per nulla apprezzate. Anzi, sfoderare atteggiamenti di arroganza e superiorità nei confronti dei collaboratori è una tendenza abbastanza radicata nella redazione vibonese. Probabilmente i redazionali si considerano i “prescelti”, gli unti del Signore, della serie, parafrasando l’indimenticabile Marchese Del Grillo, “io sono io e voi nun siete un cazzo”.
L’edizione di Vibo Valentia del Quotidiano: un affare di famiglia.
E visto che sono in tema, credo sia necessario delineare la figura del Prestia. Cominciamo col dire che è uno di quelli che si può definire “figlio di papà”. Il padre, infatti, Ciccio Giacomo Prestia, è giornalista tuttora corrispondente da Vibo città, co-fondatore della redazione vibonese del Quotidiano, mica uno qualsiasi. Possiamo dunque definire Prestia jr un raccomandato dal padre? Ovviamente si. Ma, sia ben chiaro, la definizione non vuole essere dispregiativa. Nel senso che io, benchè sia una strenua sostenitrice della meritocrazia, e non certo della paparino-crazia, posso comprendere che le raccomandazioni sono una consuetudine assai radicata nel nostro territorio.

Certo, una tendenza che ha collocato in posti strategici dei perfetti imbecilli e messo ai margini chi davvero aveva ingegno e capacità da vendere. Tuttavia, ci sta che uno inserisca un suo congiunto in un posto di comando, se ne ha la possibilità, anche se è un asino senza speranze; il problema si pone quando quel congiunto si veste di arroganza e superbia e, soprattutto, fa cazzate madornali ai danni di un territorio e della sua rinascita, facendo svergognare un’intera generazione e la sua categoria professionale, qualsiasi essa sia. Qui allora le cose si complicano, e il danno appare irreparabile.
Tornando a Prestia jr, che ha preso il tesserino da giornalista, magicamente, quasi in un battito di ciglia, senza gavetta alcuna è stato catapultato nella redazione del Quotidiano, subito dopo le superiori. Inoltre, c’è da sottolineare la circostanza che lo stesso ha “confinato” il suo mestiere dagli appellativi pomposi, come “professionista” e “redazionale”, al ruolo di semplice compilatore delle carte delle carte della procura, sentenze, atti dei tribunali, et cetera. Inchieste, da parte sua, su un territorio massacrato dalla ndrangheta, non ne esistono. Ma non disperiamo. Ciò nonostante, si diletta a ergersi a giudice severo e censore delle inchieste altrui. Nella fattispecie, le mie.
Esclusive, non sagra dei funghi o note stampa.
Tra le esclusive che io, invece, ho portato al Quotidiano, voglio rammentare la questione dell’acqua a Nicotera Marina; tematica ignorata per anni dai giornali locali; lo scandalo di Calabria Etica che coinvolse alcuni amministratori comunali; la vicenda del restyling del waterfront di Nicotera Marina, un appalto da un milione di euro finito sotto la lente di ingrandimento della Guardia di Finanza; e molte altre tematiche in cui spesso gestione della cosa pubblica e gli interessi del clan Mancuso andavano a braccetto. Ma uno dei fatti che la sottoscritta ha fatto emergere, e che è balzato agli onori della cronaca, è stata la vicenda dell’atterraggio dell’elicottero in piazza Castello, in pieno centro storico a Nicotera. Ebbene, anche far passare quella notizia non è stato semplice, in quanto anche lì ho dovuto scontrarmi con una forma di inspiegabile ostruzionismo. Il Quotidiano, ad ogni modo, lanciò la news, e solo quando se ne occuparono le altre testate, in redazione si vinse la timidezza e si acquisì il coraggio necessario per approfondire la vicenda.

A riprova della contrarietà del giornale ad affrontare la tematica in oggetto, durante le elezioni comunali del maggio del 2019, inviai al Quotidiano un articolo in cui rivelavo che un candidato a consigliere aveva steso il tappeto rosso ai famosi sposini appena scesi dall’elicottero, evidenziando l’inopportunità della circostanza visto il collegamento alla vicenda mediatico-mafiosa. Il mio articolo fu dapprima impaginato e poi rimosso. Subito dopo mi fu comunicato che ero stata addirittura sospesa per una settimana, a titolo di punizione, per via di quel pezzo, risultato sgradito a qualcuno. Per inciso, a chi avesse dei dubbi su chi ci abbia messo la faccia, oltre che la penna, nella vicenda degli sposini, si vada a rivedere le puntate dell’Arena di Giletti su Rai 1. Chi si è messo contro chi e cosa è evidente a tutti, e lo è stato a livello nazionale e internazionale forse. Si perdoni l’immodestia, ma è così. La cosa, senza l’intervento della sottoscritta, all’epoca “sguardo” del Quotidiano del sud a Nicotera, non sarebbe mai venuta fuori. Mai.
La mia cacciata dal Quotidiano.
Dopo anni difficili, tra censure e ostruzionismi, è arrivata la mia cacciata, ad opera del signor Gianluca Prestia. Io disconosco le motivazioni ufficiali di tale provvedimento. La mia presenza risultava indigesta per motivazioni che ignoro e che sono depositate nella testa del Prestia, e, a quanto pare, anche nella eccelsa zucca del signor Francesco Ridolfi, altro redazionale, meglio noto con l’appellativo di “natuzzologo” (per le sue interminabili lenzuolate sulla vicenda di Natuzza Evolo; nella fattispecie, i battibecchi tra gli storici supporters della mistica e il vescovo).

Quel che so di certo è che già nello scorso dicembre erano iniziati i viaggi della speranza in quel di Cosenza, nonché gli infervorati appelli al direttore, da parte dei giornalisti professionisti redazionali (e guai a non definirli “professionisti”), e di qualche sgallettata dell’entroterra vibonese, per farmi espellere, in quanto, sembrerebbe che qualche mio post su Facebook abbia violentato la loro sensibilità. In pratica, una corrispondente che non ha vincoli di nessuna natura, se non di collaborazione che dovrebbe essere occasionale, non pagata e mal pagata, deve privarsi della libertà di esprimere la propria opinione come se appartenesse ad una setta integerrima e severa che non ammette respiri autonomi. In sostanza, io avrei mal rappresentato il Quotidiano.
La frequentazione di mafiosi non desta loro alcun vergogna.
Ma quale condotta dovrebbe tenere un giornalista per rappresentare degnamente il suo giornale? A mio avviso, bisognerebbe, innanzitutto, onorare la legalità e tenersi alla larga di frequentazioni di soggetti collegati alla criminalità organizzata, a meno che esigenze giornalistiche e d’inchiesta non ti costringano a intessere con essi un dialogo, per fini di approfondimento giornalistico, si intende. Quando abbiamo preso il tesserino, l’Ordine dei Giornalisti ci ha insegnato che un giornalista è come un Carabiniere: deve condurre la sua attività con disciplina e onore, e deve, senza se e senza ma, fare una precisa scelta di campo. La sua condotta deve essere inattaccabile sul piano della legalità, senza opacità o ambiguità di sorta. Per quanto mi riguarda, ho sempre dichiarato con chiarezza da che parte sto, condannando apertamente i mafiosi e le loro azioni, evitando, altresì, frequentazioni o rapporti d’affari, o di fare pubblicità a locali a loro riconducibili, espressioni della mala-movida cittadina, come ha fatto qualche giornalista del Quotidiano (edizione Vibo, ovviamente).

Gianluca Prestia, dunque (ma anche il signor Ridolfi, si direbbe),si è scandalizzato per un mio post su Facebook. Tuttavia, il fatto che un altro collaboratore del Quotidiano frequenti con una certa disinvoltura un locale appartenente a un soggetto pregiudicato, nella fattispecie lo zio dello sposino dell’elicottero, appartenente a una famiglia legata al clan Mancuso: nello specifico i Gallone di Nicotera Marina (come ha rivelato l’inchiesta Rinascita Scott, condotta dal procuratore Nicola Gratteri), questa circostanza, dicevamo, non lo scandalizza affatto, anzi, sembrerebbe che è un fatto su cui si possa soprassedere.
Gianluca Prestia conosce molto bene questa persona, perché è di suo padre che stiamo parlando, l’insegnante in pensione Ciccio Giacomo Prestia. Co-fondatore dell’edizione vibonese del Quotidiano, giornalista anch’egli per la città di Vibo, a capo della sua mini band “Musica Viva” (composta da lui, maestro alla tastiera, e due giovani ragazze), Prestia senior intrattiene la gentile clientela del locale in questione. Frequentazioni piuttosto assidue, a giudicare dalla documentazione da me raccolta, che rivelano come lo stesso, oltre che eseguire concerti nel bar sopra indicato, spesso si lasciava andare a degli spot pubblicitari in cui invitava la gente a recarsi a trascorrervi le serate, decantandone i magnifici aspetti, tra buon cibo e divertimento. Ma a quanto sembra, questa cosa non crea sconcerto, tanto meno imbarazzo nella redazione di Vibo. Di tali frequentazioni, preciso, è stato messo al corrente anche il direttore Rocco Valenti. E, in maniera del tutto casuale ovviamente, dopo aver parlato col direttore della faccenda, le foto esposte sul profilo social di Prestia senior nel locale dello zio dello sposo spariscono come neve al sole.
La profezia di Antonio Leonardo Montuoro.
Ciò detto, è assai singolare osservare come l’evento della mia cacciata dal giornale sia stato previsto da un articolo apparso su una testata giornalistica on line diretta da Antonio Leonardo Montuoro. Del quale, en passant, va segnalata la folgorante carriera.
In pochi anni, infatti, da elettricista è diventato esperto di finanza, vaticanista, protagonista dell’energia pulita nel meridione (vedi eolico, ndr), scrittore, giornalista, Cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e chi più ne ha più ne metta. A titolo di cronaca, rammentiamo anche che l’ex elettricista trasformatosi in vaticanista è finito in un’inchiesta giudiziaria denominata “Gaucho”, agli inizi degli anni Novanta (1994, per la precisione), per riciclaggio e traffico di droga, in concorso con alcuni esponenti del clan Mancuso; è stato arrestato, ma poi scarcerato, pare, per un’imbarazzante questione di omonimia.

Questo signore è ossessionato dalla mia persona, della quale si è occupato con decine di articoli ingiuriosi e diffamanti che oltrepassano di molto la soglia dello stalkeraggio. Ma, al di là di me, è curiosa l’ossessione di tale personaggio, per la riconsacrazione del Largo il Guiscardo, dove è atterrato l’elicottero famoso. Il catering per gli sposini era stato curato congiuntamente da due bar nel largo citato, uno dei quali vede casualmente tra i suoi contitolari la nipote del Montuoro. La piazza in oggetto è stata “sconsacrata” dalle telecamere nazionali di tutte le reti televisive. E’ assurta all’attenzione dei più importanti quotidiani nazionali, quale teatro di una pantomima mafiosa stile Il Padrino “denoaltri”. Pantomima tuttavia essenziale per fare presa sul vivaio della ‘ndrangheta: giovani senza arte né parte che vedono quale occasione di riscatto poter fare da lacchè allo ‘ndranghetista di turno. Era una colpa che doveva essere espiata, la sconsacrazione di quel luogo, tempio profano, alveo di fiumi di coca e piscio, che si riversano tra i vicoletti marcescenti e maleodoranti di un centro che assomiglia sempre più ai bassifondi di una qualche metropoli. Non può esistere, nella logica ferrea della ‘ndrina, uno sgarbo senza conseguenze, senza la dimostrazione di proprietà di pezzi di istituzioni e di tessuto sociale.
Tornando alla profezia del Montuoro, il pezzo vergato a dicembre dello scorso anno dal Cavaliere dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, molti mesi prima quindi, della mia cacciata ad opera del Prestia, è infarcito di Cognomi dei mandanti della mia pretesa “dipartita” giornalistica; prevedeva che la sottoscritta “…più per il Quotidiano non scriverà.” La differenza tra me e questo signore, però, è che io non sono in grado di prevedere il futuro, ma solo di leggere al meglio che posso il presente di un territorio nelle mani della ‘ndrangheta.
Se colleghi i puntini appare un insospettabile quadretto
Come faceva dunque il Montuoro a sapere ciò che il Prestia, soltanto due mesi dopo, avrebbe messo in atto, ovvero la mia espulsione dal giornale? Quali collegamenti vi sono tra i Prestia e questo signore, se lo stesso, in un altro articolo, l’ennesimo, scritto su di me, lo scorso maggio, sapeva addirittura che io ero stata “sospesa” dal giornale. Un’informativa, questa, strettamente riservata nell’ambito della redazione vibonese. Sono domande interessanti, che spero possano trovare presto una risposta esauriente. Tutte le strade, tuttavia, portano a Roma: ricomporre i vari puntini di collegamento tra i vari soggetti finora menzionati potrebbe far venire fuori un’interessante quadretto, tutto da indagare. Chi ha pianificato e perché la mia espulsione, di cui il Prestia si è fatto semplice esecutore, con l’assenso di un direttore impossibilitato a reagire dato che niente poteva contro la volontà di Vibo? Valenti, infatti, non ha fatto altro che rassicurarmi che tutto si sarebbe concluso per il meglio; anche il giorno in cui gli è stata notificata la diffida da parte del mio avvocato per il mio immediato reinserimento nel giornale. In quell’occasione mi telefonò per dirmi che mi aveva chiesto “solo un po’ tempo”; ma per risolvere cosa e con chi? Tante domande attendono delle risposte. Io, intanto, ho intentato causa civile al giornale, ma mi sono rivolta anche Carabinieri, con il mio malloppo di “prove”, nella certezza che molte cose saranno chiarite o che, quanto meno, siano chiare anche alle Forze dell’ordine, che combattono gli intrecci tra mafia, politica e massoneria, le condizioni e le dinamiche di certa stampa, che troppo spesso fa finta di non vedere il disastro morale, culturale ed economico che flagella il territorio, anzi si fa serva di un sistema corrotto. Tuttavia, già in tempi non sospetti, il procuratore Gratteri, aveva stigmatizzato la presenza di giornalisti “compiacenti”.
Le cose, insomma, già si sanno, soprattutto le sa chi contrasta davvero la mafia. Spero che il mio contributo sia utile a gettare luce su un mondo, quello del giornalismo, a volte “compiacente”, ma, aggiungerei, anche ambiguo ed omertoso. Allo stesso modo, spero che questo lungo articolo informi il più possibile sul fatto che se vuoi svolgere una seria attività giornalistica non devi solo fronteggiare le minacce e le querele, ma devi anche mettere in conto le insidie poste in essere da parte di ambienti insospettabili, come, ad esempio, il tuo ambiente di lavoro. E questo l’ostacolo più insormontabile, è questa la sfida più dura.