“E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell’Ipocrisia
Perché una mano lavasse l’altra, tutti colpevoli e così sia
E minacciosi ed un po’ pregando incenso sparsero al loro dio
Sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io” (1).
Apro questo articolo con un brano della memorabile “Nostra Signora dell’Ipocrisia” del cantautore Francesco Guccini. Un brano che più di ogni altro può fare da colonna sonora alla notizia del giorno, e cioè che il Consiglio Comunale di Vibo Valentia ha deliberato di conferire la cittadinanza onoraria al Procuratore Nicola Gratteri, e di tributare, altresì, un encomio solenne ai Carabinieri di Vibo Valentia. Una cosa che sarebbe meritoria in un Comune che non avesse al suo attivo nove consiglieri i cui nomi figurano in due famose inchieste antimafia (“Rinascita Scott” e “Rimpiazzo”), e cinque dipendenti nell’inchiesta Rinascita-Scott. Ed è proprio l’humus di cui è fatto il Comune vibonese a rendere la deliberazione del Consiglio un’iniziativa che ha un po’ il sapore della beffa, della sfida o di un’impresa stucchevole destinata ad ingraziarsi le simpatie del Procuratore.
“È inutili ca mi pettini e m’allisci, lu cuntu chi t’a fattu non t’arrinesci”. (antico proverbio siciliano)

Quale che sia la motivazione che soggiace alla delibera in questione le inchieste del procuratore, c’è da scommettere, andranno avanti, anche se Vibo dovesse portare in processione per le vie della città una statua di Gratteri fatta di oro zecchino e tempestata di diamanti. A spiegare dettagliatamente chi sono i consiglieri e gli impiegati in odor di mafia della casa comunale vibonese è il bravissimo collega Giuseppe Baglivo che, dalle pagine del Vibonese, passa ai raggi X gli indagati. (2). Un quadro allarmante che svela il grado di infiltrazione della ndrangheta nell’istituzione comunale. Le inchieste del procuratore Gratteri hanno messo a nudo la capacità pervasiva della criminalità organizzata nel municipio del capoluogo della provincia più disagiata d’Italia. Le ramificazioni dei Lo Bianco, gruppo ndranghetista satellite del clan Mancuso, si sono espanse all’interno della casa comunale vibonese anzi, secondo le carte dell’inchiesta, qualcuno è approdato a Palazzo Luigi Razza grazie ai voti dei “piscopisani”.

Ma è davvero così che si onora la legalità? È così che si tributa stima a un magistrato antimafia che rischia la vita ogni giorno? Basta elevare un peana ai Carabinieri per mettere tutto a posto? In buona sostanza, cosa ha fatto l’amministrazione guidata da Maria Limardo per prendere le distanze dalla ndrangheta e dal sistema masso-mafioso che sovrasta Vibo Valentia? Cosa ha fatto la politica vibonese per intaccare la coriacea struttura del malaffare che alligna anche, e soprattutto, all’interno degli uffici comunali del capoluogo? Mafia, istituzioni, massoneria, politica: un ibrido letale e liberticida che rende Vibo e la sua provincia tra le ultime d’Italia per qualità della vita. Un ibrido che avvantaggia chi vuol prendere parte a quest’orgia di corruzione, ma che lascia ai margini chi sceglie la via della legalità.

La verità è che prima di tributare onori a Gratteri o ai Carabinieri ci vogliono atti concreti. Ci vogliono prese di distanza ferme e pragmatiche. E ci vuole anche tanta onestà intellettuale: non si può incassare un plebiscito e poi dichiararsi estranei a questo sistema di cose; non si può far finta di cadere dal pero e negare l’evidenza; non ci si può tenere le serpi in seno e intanto rivolgere lodi sperticate a Gratteri. È semplicemente una questione di scegliere da che parte stare, uscendo da ogni ambiguità. Non servono atti eclatanti, basta operare con correttezza e onestà, ripudiando ogni forma di ipocrisia. Il primo atto concreto di legalità, da parte del consiglio comunale di Vibo, sarebbe stato quello di dimettersi, già all’indomani dell’inchiesta Rinascita Scott, quando prove inequivocabili e pesanti come macigni hanno messo in luce la pervasività della ndrangheta, non solo a carico dei consiglieri ma anche dei dipendenti comunali. Un Comune, insomma, che andava epurato da capo a piedi. E invece no. La Limardo e i suoi hanno preferito restare arroccati al loro posto, dichiarandosi scandalizzati e estranei ai fatti. Non hanno voluto seguire l’esempio del presidente del consiglio, Giuseppe Muratore che, in uno scatto di dignità, si è dimesso, non solo da presidente, ma anche da consigliere. «Non me la sento più di andare avanti. Quello che emerge dall’ultima inchiesta è un quadro allarmante che riguarda anche il nostro Comune di Vibo», queste le sue parole, che sono rimaste le uniche, come una voce nel deserto. Ma se Muratori se ne andava, il prefetto di Vibo, Francesco Zito, rimetteva al suo posto il consigliere Alfredo Lo Bianco, dapprima sospeso dal consiglio e poi riammesso dallo stesso rappresentante governativo perché la misura cautelare era stata sostituita con l’obbligo di dimora dal Gip distrettuale.

Tutto, insomma, è rimasto così com’è, cristallizzato in un quadro opaco e poco rassicurante. E ancora una volta non è la politica ad autopulirsi, a compiere un “auto da fè”, ma, ancora una volta, occorre l’intervento della magistratura a ripristinare un briciolo di legalità. Ancora una volta sono gli atti giudiziari a dover provare a smantellare il sistema. Un lavoro, quello degli inquirenti, che va quasi a confligere con altre forme di potere.

È lecito, infatti, domandarsi perché la Commissione di accesso agli atti, in un Comune così platealmente e vistosamente dominato dalla mafia, non sia arrivata. Per molto meno altri comuni sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose.

L’inadeguatezza di un paesone elevato a capoluogo di provincia.
La politica, a Vibo, sembra quasi che ami navigare in queste acque: anch’essa, evidentemente, trae vantaggi da questo stato di cose. Fatta eccezione per alcuni episodi isolati, la mafia qui non ha bisogno di manifestarsi volgarmente, come potrebbe avvenire in contesti più periferici: a Vibo è ormai istituzionalizzata. È qui che regna il gotha di una massoneria che ha trovato il suo habitat ideale nell’essenza di una realtà, che è una “quasi città e un non paese”, arrendevole e manipolabile, sospesa a mezzaria, senza una vera identità se non quella di essere un paesone trasformato in capoluogo di provincia, ma che, suo malgrado, non possedeva l’emancipazione culturale e politica adatta per ricoprire il ruolo che le è stato forzosamente conferito. Vibo è una sorta di Alice nel paese dei corrotti, cresciuta esponenzialmente negli ultimi decenni sotto la cultura mafiosa dello strozzo, presa d’assalto dai clan satelliti dei Mancuso e colonizzata in ogni sua espressione, dominata da indicibili accordi tra politici, dirigenti, rappresentanti istituzionali e gente che fino a un attimo prima scannava maiali. E in questo rapporto malsano non esistono vittime, ma solo complici, perché una certa morale indulge comportamenti lascivi.
Sistemare i figli
Ed è quella Vibo che si è resa cedevole e ricattabile per una fissazione arcaica e provinciale: sistemare i figli, servendosi di inciuci, amicizie e raccomandazioni, e se bisogna rivolgersi a un soggetto torbido nessuno fa lo schizzinoso, l’importante è raggiungere l’obiettivo. E così, tra gli altri, abbiamo l’improbabile dirigente, il discutibile segretario di partito, il sospetto impiegato in un ente pubblico, il finto giornalista che si limita a fare copia e incolla delle carte della Procura, e a diventare quindi funzionale al sistema mafioso, che vuole burocrati e non certo teste pensanti; avremo tutte quelle situazioni che rivelano un incredibile grado di corruzione e vistose ingiustizie. Avremo soggetti inspiegabili posti in strategiche posizioni di comando. Tuttavia, quando si fa una scelta così definitiva va da sé che poi non puoi lavarti la coscienza allestendo cerimonie catartiche.