Molto spesso le vittime di mafia sono impossibilitate ad emanciparsi dal loro stato. Rimangono vittime per sempre. Restano cristallizzate in una condizione di martirio e di dolore che non prevede risarcimento per il male subito. La giustizia tarda ad arrivare. Anzi, a volte non arriva affatto. A peggiorare lo stato d’animo dei familiari delle vittime è il fatto che nemmeno le leggi codificate a loro favore vengono rispettate. Qualche giorno fa, abbiamo parlato su questo giornale di una legge speciale, entrata in vigore nel 1980 e via via arricchitasi di nuovi codici fino a giungere a quella attuale (ratificata nel 1999) secondo la quale le vittime del terrorismo e della criminalità organizzata hanno diritto ad essere inserite in speciali liste, le cosiddette “categorie protette”, che permettono loro di poter essere assunti in vari ambiti lavorativi, come ad esempio presso il Comune, la Regione o altri enti ad essa riconducibili. Una legge disattesa, con grande amarezza dei familiari delle vittime. Abbiamo citato il caso dei congiunti di Filippo Ceravolo, il 19enne assassinato da killer ancora non identificati, ucciso per sbaglio in un agguato di mafia. A Filippo nel 2014 è stato conferito lo “status” di vittima di mafia. Il padre, Martino, da anni combatte per ottenere giustizia, ma lotta anche per far rispettare la legge che prevede l’ottenimento di un impiego per un familiare. Ma se il padre di Filippo battaglia dal 2017, ci sono altre vittime di mafia che combattono da 29 anni. Da ben 29 anni bussano alla porta di politica e istituzioni. E’ il caso di Eugenio Bonaddio, il sopravvissuto della strage dei netturbini, che dal 1991 chiede che venga dato un nome e un volto ai mandanti di quella pioggia di colpi di kalashnikov che ha ucciso i suoi colleghi e lasciato lui mezzo morto.

Chiede inoltre che la legge n.466 sia applicata, e che suo figlio possa usufruirne. Il giovane, 30 anni, laureato in Economia, ha richiesto alla Regione di poter accedere alla normativa prevista per i congiunti delle vittime di mafia. Le richieste sono state, negli anni, più di trecento, ma la risposta è sempre stata, da parte degli organi preposti, in primis la Regione Calabria, uno sprezzante silenzio.
Le promesse, però, com’è facilmente immaginabile, sono state tante, spesso elargite nel periodo elettorale, e sempre puntualmente disattese. Eppure è impossibile dimenticare come i consiglieri regionali dell’attuale esecutivo si siano attivati per far approvare la legge che garantiva loro il vitalizio. Una manciata di secondi e il gioco era fatto, se non fossero stati scoperti con le mani dentro la marmellata.
L’ECCIDIO DEI NETTURBINI.

Eugenio Bonaddio è vivo per miracolo.
Il 24 maggio del 1991 era un venerdì, e come tutte le mattine, insieme a due suoi colleghi, iniziava una nuova giornata lavorativa. Erano le cinque del mattino e il mezzo della raccolta dei rifiuti con a bordo i tre netturbini si stava dirigendo verso località San Biase per svuotare dei cassonetti. Giunti a destinazione si materializza sul posto uno strano individuo con barba e capelli lunghi, vestito di scuro da capo a piedi come un emissario della morte. Imbraccia un fucile, quello che poi si scoprirà essere un mitra 7,62, micidiale arma in dotazione esclusiva alle forze della Nato. Praticamente la versione americana del kalashnikov.

Il soggetto si avvicina al camion e ordina ai tre di scendere, ma non appena uno di loro apre la portiera l’uomo comincia a sparare. Scaricherà su quei tre poveretti 18 colpi, tutti quelli contenuti nel micidiale fucile. Francesco Tramonte, 40 anni, tre figlie piccole, e Pasquale Cristiano, 28 anni, muoiono sul colpo. Eugenio Bonaddio, gravemente ferito, riesce a fuggire. Si infila in una stradina, corre a perdifiato, ha il braccio frantumato da un proiettile, il labbro falciato da un altro colpo che solo per pochi centimetri non lo ha ammazzato. Riesce a raggiungere altri colleghi e a dare l’allarme. I Carabinieri che arriveranno sul posto troveranno nella cabina del camion i corpi crivellati di due innocenti, morti mentre svolgevano onestamente il loro lavoro. Le indagini porteranno all’arresto di Agostino Isabella, soggetto vicino ad ambienti malavitosi, il cui aspetto è conforme alla descrizione fornita da Eugenio Bonaddio. Inoltre, la prova dello stub dimostra che nella sua mano vi erano particelle di polvere da sparo. Nonostante le evidenze, il processo si conclude nel 1993 con l’assoluzione dell’unico imputato. Ma l’amarezza per i familiari delle vittime non finisce qui: il processo d’appello infatti non avrà luogo perché il Pm, Luciano D’Agostino, presenta in ritardo la richiesta di ricorso.

Ma perché i netturbini sono stati uccisi? Pare che alla base di tutto ci fosse la guerra tra cosche per il controllo degli appalti della raccolta dei rifiuti, esternalizzata dal Comune di Lamezia nel 1988. L’uccisione dei due impiegati (ma nelle intenzioni del killer dovevano essere tre) fu letta come un chiaro avvertimento alle cosche concorrenti e amministratori recalcitranti, oltre che un segnale di spietatezza mafiosa.
Adesso, a distanza di 29 anni, giustizia non è stata fatta, e nemmeno i diritti dell’unico sopravvissuto sono rispettati. Una storia tragica, l’eccidio dei netturbini, una storia triste che dimostra in tutta la sua crudezza la brutalità della ndrangheta e il fallimento delle istituzioni