BERGAMO. In questo momento così difficile, che probabilmente resterà impresso a caratteri di fuoco nella memoria collettiva degli italiani, c’è una categoria di operatori di cui si parla pochissimo, ed è quella degli impresari delle agenzie funebri. Sono loro a svolgere la parte più triste, quella a contatto con il post mortem, con il dolore dei familiari, con una salma da portare via, verso la tumulazione o verso la cremazione, senza cerimonia religiosa, senza quel rito funebre che sancisce e accompagna l’ultimo saluto al proprio caro e da cui inizia l’elaborazione del lutto. Ai morti stroncati dalla pestilenza del nuovo millennio per ragioni di praticità e profilassi è negato quel decoro riservato a chi moriva in tempi cosiddetti normali. E sono proprio gli impresari funebri a dover fare i conti con questa realtà. A raccontare un dramma che sembra non aver fine è la titolare dell’onoranze funebri “Regazzi” di Bergamo. «Siamo allo stremo», dice l’imprenditrice, «perché non riusciamo a far fronte a una situazione emergenziale ormai insostenibile»; ma a venire meno, ascoltando quella voce triste dall’altra parte del telefono, sono anche le forze emotive, psicologiche, anche per chi ha a che fare tutti i giorni con la morte. La situazione è collassata, e le pompe funebri non riescono “a smaltire” (terribile verbo, ma trovarne altri che rendano l’idea è impossibile) tutte le richieste. A decine, ogni giorno. «La cosa che più ci fa male», racconta ancora la titolare, «è non poter dare decoro alla morte, non poter allestire quella cerimonia dell’addio, non poter rendere solenne e decoroso quel momento». «Ci chiamiamo onoranze funebri proprio perché “onoriamo” il defunto, questo è il nostro ruolo». Ma adesso, però, non è più così. Sia per le persone morte a casa o in ospedale, la procedura è sempre la stessa: tutto si svolge velocemente e con la massima cautela per evitare il contagio. Il defunto viene infilato in un sacco in fretta e furia, così com’è, senza cioè la vestizione, perché sarebbe troppo rischioso per gli operatori. Dal sacco nella bara e, dopo l’accertamento di morte da parte del necroscopo, il feretro viene sigillato e destinato alla tumulazione o alla cremazione. Le salme vengono poste in un capannone a Ponte San Pietro, in attesa di essere portate via; qui ricevono una veloce benedizione dal sacerdote. Molte di esse sono destinate alla cremazione, ma poiché i forni crematori lombardi sono ormai al collasso, il comune ha disposto il trasferimento altre città. A provvedere al trasporto è l’esercito e l’immagine della luttuosa marcia dei camion militari carichi di bare verso i templi crematori è rimasta impressa negli occhi di tutti. Un addio straziante, senza conforto e consolazione. «Le famiglie- racconta ancora l’imprenditrice- vedono portato via dall’ambulanza il proprio caro che sta male, ma non lo rivedranno più, perché glielo riconsegneranno in un’urna». Un distacco feroce, di cui, a parere dell’imprenditrice, le famiglie ne avvertiranno lo choc solo dopo che tutto questo sarà finito.
Gli impresari funebri, oltre a guardare in faccia la tragedia e gli occhi smarriti di chi perde così i propri cari, devono farsi carico di tutte le incombenze burocratiche che sorvegliano la morte. Il disbrigo di tali pratiche è completamente a loro carico: servono firme e autorizzazioni a non finire e sono loro a girare per gli uffici a completare i certificati, senza i quali non si può procedere allo smaltimento della salma. La burocrazia è rimasta quella che era, complessa, snervante e indifferente di fronte a un caos come questo. «Molti impresari- aggiunge la titolare- sono malati o in quarantena, e quindi non possono più svolgere tali importanti mansioni. Molti sono costretti a rifiutare le tante chiamate».
C’è il rischio concreto, per la scarsità di operatori, che a qualcuno rimanga a casa il morto per giorni, com’è successo a una donna: le è morta la madre, a casa, il 22 marzo, ma solo il 25 si è potuto provvedere a rimuovere la salma. La situazione si fa sempre più complicata per questi lavoratori, i quali ormai non sono più dei lavoratori autonomi ma svolgono un servizio di pubblica utilità senza però avere le tutele garantite dall’Asp. L’equipaggiamento per proteggersi dal virus è dunque tutto a carico degli impresari. «Noi non stiamo più facendo il nostro lavoro- spiega la titolare dell’Agenzia Regazzi- ci stiamo occupando di smaltire le salme, e lo stiamo facendo esponendoci a grandi rischi». L’Azienda sanitaria provinciale di Bergamo non dà loro né tute, né mascherine. E poiché adesso scarseggiano stanno usando quelle fatte in casa, che sono utili, ma sicuramente proteggono meno. Da parte dell’Asp nemmeno delle direttive, o due parole messe in croce per questi lavoratori. «Le uniche direttive che abbiamo ricevuto- sottolinea l’imprenditrice- sono quelle delle associazioni di categoria, attraverso un’email». «Molti colleghi ci chiamano dal Sud Italia e si dicono preoccupati perché se dovesse accadere anche al Sud ciò che sta accadendo a Bergamo, non saprebbero come gestire la situazione». Una preoccupazione più che legittima visto e considerato che la categoria in questione non è degna di particolari attenzioni governative, in questo delicato frangente. Eppure, il ruolo da loro svolto è difficile, rischioso e assolutamente indispensabile. Senza di loro vivremmo un dramma nel dramma.
Un’evenienza che non è fantascienza, dato che molte imprese funebri non rispondono più alle chiamate delle famiglie: non hanno più mezzi e protezioni per svolgere queste mansioni.