di ORESTE TARANTINO
Cosa ha detto Fausto Leali di così sconvolgente da meritare la gogna mediatica?
“Il Fascismo ha fatto anche cose buone per esempio le pensioni”. In verità non è il primo che dice queste cose, ci hanno provato in tanti e con risultati diversi in termini di effetti e ripercussioni personali.
Mi viene in mente, per esempio, l’ormai defunta Margherita Hack, la famosa e ultra ateo-comunista astrofisica. I giornalisti di regime non hanno avuto il coraggio di censurare niente, l’hanno solo snobbata per non darle risalto, in un’intervista infatti disse: “Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo. Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo”.

Lo stesso giornalista e scrittore Paolo Mieli, già ex direttore del Corsera, ha scritto un libro dove ha fatto un lungo e inaspettato elenco delle opere di ammodernamento durante il ventennio. La lista sarebbe lunga e, vi garantisco, sorprendente. Anche con lui i giornali hanno preferito non scendere sul piede di guerra, troppo grosso, troppo impari come lotta…. meglio evitare, persino Scanzi si è tenuto alla larga. E come non citare il giornalista e scrittore Gianpaolo Pansa che con occhio lucido e attento aveva affrontato il tema del fascismo e dedicato addirittura un libro (“Il sangue dei vinti”) sugli orrori perpetrati dai partigiani sui prigionieri repubblichini.
Con Fausto leali, invece, sono stati sbrigativi e sommari. Accusa, processo, esecuzione: tutto nello spazio-tempo di un giorno. Ognuno ha detto la sua; i più gentili l’hanno preso per ignorante, i più esacerbati hanno continuato sino all’ormai consueta bollatura di fascio-lega-nazi-negazionista-terrapiattista-razzista-sovranista. Non ha avuto scampo ed è stato escluso, immediatamente e senza appello nientemeno dal Grande Fratello Vip…!
E meno male che era una televisione di Berlusconi, fosse stata La7 l’avrebbe ghigliottinato.

Pertanto cerchiamo di dipanare il mistero: è vero o no che l’INPS è nato durante il fascismo? La risposta è: assolutamente si!
Siamo andati nel sito dell’INPS stesso a vedere e abbiamo scoperto che:
Nel 1898 la previdenza sociale muove i primi passi con la fondazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e per la vecchiaia degli operai (Legge 17 luglio 1898, n. 350). Ispirata al principio della «previdenza libera sussidiata», si tratta di un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori. A ciascun iscritto è intestato un conto individuale su cui accreditare i contributi versati, le quote di concorso (ossia l’integrazione della Cassa) e i relativi interessi. Se il lavoratore non ha vincoli quanto all’entità ed alla durata del versamento, il diritto alla rendita sorge solo dopo un certo numero di anni di iscrizione ed alla maturazione dell’età di 60 anni.

Come possiamo benissimo capire, si trattava di un’assicurazione volontaria da parte del lavoratore, integrata da un libero contributo degli imprenditori, per avere una rendita di vecchiaia quando si aveva più la possibilità di lavorare. In pratica ciò che avviene oggi negli Stati Uniti.
Nel 1919 avviene la prima trasformazione, quella che prima era una libera e volontaria prerogativa, diventa un obbligo e, a parte l’elevazione da 60 a 65 anni del limite per la maturazione del requisito per l’ottenimento della rendita, non cambia pressochè niente.
Nel 1933 la CNAS assume la denominazione di Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale, ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e gestione autonoma che, dal 1944, tolta la parola “fascista”, diviene definitivamente Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, Società di diritto pubblico e di pertinenza del Ministero del Lavoro.
Tra il 1927 e il 1941 sono istituite inoltre:
- l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi,
- gli assegni familiari e di maternità,
- l’indennità di disoccupazione e la Cassa Integrazione.
- Nel 1939 il limite di età per il conseguimento della pensione di vecchiaia viene ridotto a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne;
- viene istituita la pensione di reversibilità.
- Il limite massimo delle ore di lavoro settimanale del dipendente privato e pubblico: 40 ore per 5 giorni.
Nel periodo 1968–1972 il sistema retributivo, basato sulle ultime retribuzioni percepite, sostituisce quello contributivo nel calcolo delle pensioni. I guai prodotti dal quel sistema li stiamo pagando ancora oggi.
Nel 1989 entra in vigore la Legge di ristrutturazione dell’INPS (L. 88 del 1989), che trasforma l’Ente in una moderna azienda di servizi del tipo SpA.

Nel 1995 si ritorna la calcolo della pensione con il sistema “fascista” ovvero con l’intero ammontare dei contributi versati.
Nel 2012 la ministra Fornero, accorpa INPS e INPDAP, affossando sotto una montagna di debiti un Istituto non più di diritto pubblico, che deve, in ottemperanza alle regole economiche della UE, approvare annualmente i bilanci come qualunque società per azioni privata e, nel caso, fallire con tutto quello che ne consegue.
Si, Fausto Leali ha ragione. Sulle pensioni e su tutto il resto.