di ENZA DELL’ACQUA

“Nessuno ha distrutto il cadavere di vostro figlio.” Questa, in sostanza, la verità processuale che il tribunale del Riesame di Catanzaro il 22 novembre del 2018 ha consegnato ai genitori di Stefano Piperno, il 34enne insegnante di alfabetizzazione, barbaramente assassinato per poche decine di euro da Ezio Perfidio, 34 anni, nel primo pomeriggio del 19 giugno 2018. Il suo cadavere è stato distrutto dal fuoco, appiccato da un omerico Nessuno, in quella sventurata e funesta giornata.

La verità in questione è scaturita dalla decisione, ormai datata, del tribunale del Riesame, come precisato, che ha rigettato l’appello presentato dal procuratore della Repubblica di Vibo Valentia in merito all’ordinanza, emessa dal Gip dello stesso tribunale, di archiviare la posizione di Sonia Perfidio, classe ’88, sorella di Ezio, accusata di aver compartecipato alla distruzione del cadavere di Stefano Piperno.

E deve rimbombare ancora nella testa dei genitori una verità che suona come l’ambigua ed astuta frase di Ulisse al monocolo Polifemo. Condannati, loro, a parlare ed urlare al vento che Nessuno ha distrutto quel che rimaneva del loro sventurato figlio.
La notizia della decisione dei giudici di Catanzaro, come può essere immaginabile, ha gettato nello sconforto i genitori del giovane ucciso, il padre Gregorio, e la madre, Gina Pagano, entrambi insegnanti in pensione. La lunga lotta per ottenere giustizia si trova ora davanti a uno steccato. E per loro non sarà semplice scavalcarlo. I labirinti contorti del diritto pare sfocino in una via d’uscita che tutelerebbe i carnefici più che le vittime.
Cercare e trovare garanzie per i carnefici non sembrerebbe una missione così ardua. É questa la sensazione che attanaglia la signora Gina Pagano, che, insieme al marito, non si dà pace per la decisione assunta dai giudici catanzaresi. La Perfidio, infatti, potrebbe farla franca, uscire fuori dallo scenario dell’omicidio perpetrato dal fratello Ezio, e tornare alla sua vita di sempre.
I FATTI
É il pomeriggio del 19 giugno del 2018. Stefano esce di casa, come ogni giorno, per raggiungere il suo posto di lavoro, presso il vicino centro di accoglienza, dove insegna alfabetizzazione. Ma al Cas, Stefano, non ci arriverà mai. Di lui, quel giorno, si perdono completamente le tracce. I genitori, preoccupatissimi, si recano dai Carabinieri per segnalare il mancato rientro del figlio a casa.

Tuttavia, prima di formulare una denuncia è necessario aspettare 48 ore, così prevede la normativa in materie di persone scomparse. Ma i genitori insistono: Stefano era un ragazzo dedito al lavoro e alle sue passioni: la musica e i libri, tanti amici, ma pochissima vita mondana. E poi non era solito allontanarsi senza avvisare. Ogni ora che passa, per Gina e Gregorio, è un tassello che si aggiunge a un quadro inquietante. La preoccupazione si fa tormentosa, e mille pensieri, paure, congetture si affollano nella loro mente. Cosa poteva essere successo a Stefano? Dov’era? Perché non dava più notizie di sé? Viene pubblicato anche un post su Facebook, in cui si chiede a chiunque avesse notizie di farsi avanti. Il bellissimo volto di Stefano, dai grandi occhi neri, balzò di profilo in profilo, nel mondo dei social. Ma nessuno si fece avanti. Intanto, l’agghiacciante verità sulla scomparsa di Stefano era pronta a travolgere i genitori, brutale come uno tsunami di dolore che non lascia scampo: il 20 giugno Gregorio e Gina stavano seduti ancora una volta davanti al comandante dei Carabinieri della stazione di Nicotera. I militari non hanno ancora notizie da dare: Stefano sembra evaporato nel nulla, benché le ricerche siano già in azione. All’improvviso suona alla porta della caserma un signore. É trafelato, sconvolto: annuncia ai Carabinieri che nel suo appezzamento di terreno ha appena rinvenuto un’auto bruciata, con all’interno un corpo carbonizzato. L’uomo ignora che in una stanza attigua ci sono due genitori, disperati per l’ingiustificata assenza del figlio, che hanno sentito tutto, e che non possono e non vogliono credere che possa trattarsi del loro figliolo, e nello stesso tempo non possono far finta di ignorare quella sensazione crudele e ineluttabile che quella tragica scoperta possa avere qualcosa a che fare con Stefano. Sotto i loro piedi si è aperto un baratro di disperazione da cui è impossibile risalire, passassero pure cent’anni. I Carabinieri cercano di arginare le lacrime di Gina e di Gregorio, “avevano capito male, non di un cadavere si trattava, era tutto da verificare”, attingendo a quel pietoso arsenale di parole usate quando si vuole lenire inutilmente una ferita ormai sanguinante. La verità aveva bussato alla porta di quella caserma, ed era giunta alle orecchie dei genitori in quel modo, diretta e brutale.
L’auto rinvenuta nel podere in questione era completamente distrutta dalle fiamme, ma si poteva comunque capire che si trattava dell’auto della signora Gina Pagano. L’aveva data al figlio, il giorno prima, per raggiungere il Centro di accoglienza. Il 18 giugno Nicotera era stata messa in ginocchio da un’alluvione spaventosa: le strade erano impraticabili, una coltre di fanghiglia copriva l’asfalto. Stefano dunque aveva preso la Fiat Uno della madre per recarsi al lavoro.
Ma prima di uscire di casa aveva detto ai genitori che quella mattina Perfidio Francesco ed il figlio Ezio lo avevano cercato al Cas, chiedendogli di recarsi a casa loro, quel pomeriggio.

I coniugi Piperno hanno reso edotti gli inquirenti di questo importantissimo particolare, ma si attendono ancora sviluppi in merito. I Carabinieri del Nucleo operativo della Compagnia di Tropea (guidati dal Maggiore Dario Solito, ndr), del Nucleo Investigativo di Vibo Valentia (guidati dal Maggiore Valerio Palmieri, ndr), del Ris di Messina e della sezione “Crimini violenti” del Ros (diretti dal colonnello Paolo Vincenzone, ndr), tre mesi dopo, avrebbero spiegato ai familiari di Stefano che ne era stato di loro figlio quel pomeriggio piovoso e maledetto.
GLI ARRESTI
Le ombre cominciarono a diradarsi la mattina del 4 settembre del 2018, quando Francesco ed Ezio Perfidio, padre e figlio, furono arrestati per l’omicidio e la distruzione del cadavere di Stefano Piperno; per Sonia, rispettivamente sorella e figlia degli arrestati, 30 anni ancora da compiere, scattò la denuncia a piede libero per concorso in distruzione e soppressione di cadavere.
Nel corso di quella estate incerta e piovosa, gli inquirenti avevano raccolto le prove necessarie per inchiodare alle loro responsabilità i Perfidio. Intercettazioni telefoniche e ambientali avevano delineato la dinamica dei fatti, nonché il movente del delitto. Stefano quel giorno, prima di raggiungere il Centro di accoglienza, si era recato presso l’abitazione dei suoi carnefici, dato che gli stessi, come precisato, lo avevano invitato a recarsi presso la loro abitazione. Proprio con i suoi assassini, il giovane, aveva contratto un piccolo debito, una somma irrisoria, pari a poche centinaia di euro, per via della cessione di alcune dosi di stupefacente. Sostanza che Stefano usava nella convinzione che potesse alleviargli i disturbi d’ansia con i quali conviveva da molti anni. E forse proprio a causa del debito in essere che, secondo gli inquirenti, sarebbe sorta una lite sfociata nell’omicidio del giovane, compiuto da Ezio, mentre, secondo i Carabinieri, Francesco, il padre dell’assassino, avrebbe assistito all’omicidio. Tuttavia, la dinamica dei fatti non è mai stata definitivamente chiarita. Il medico legale, infatti, nel corso dell’esame autoptico, ha rilevato che Stefano, oltre ad essere stato attinto da un proiettile, aveva il cranio sfondato, presumibilmente da un colpo contundente. Un dato, questo, che farebbe pensare che il giovane sia stato colpito alla testa prima di essere finito con un colpo di pistola. Oppure al contrario: prima attinto da un colpo d’arma da fuoco e poi finito con un colpo in testa. Un omicidio barbaro e orribile, con un finale degno di quelle terribili storie di omicidi di mafia che hanno riempito le cronache del profondo Sud, dal secondo Dopoguerra in poi.
Quel che è avvenuto con precisione quel pomeriggio di sangue giace nella memoria e nella coscienza gli autori dell’agghiacciante assassinio.
Padre e figlio, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, avrebbero cercato di disfarsi del cadavere di Stefano e di cancellare ogni prova di quanto perpetrato.

Ed è in questa fase che entra in scena Sonia, figlia di Francesco e sorella di Ezio. Il cadavere di Stefano sarebbe stato sistemato al posto del passeggero nella sua stessa auto, e poi condotto in un podere nei pressi della frazione pedemontana di Preitoni.
Uno dei tre protagonisti della vicenda avrebbe guidato il mezzo fino al punto prestabilito, mentre un’altra persona, identificata dagli inquirenti in Sonia, avrebbe seguito l’auto con a bordo il corpo esanime di Stefano, con una Panda bianca. Giunti a destinazione, avrebbero cosparso l’auto del povero ragazzo di liquido infiammabile, presumibilmente benzina, dandole fuoco. In una manciata di minuti le fiamme hanno avvolto il mezzo che è diventato il forno crematorio del giovane insegnante.
Intanto, i responsabili di quell’orrore se ne tonavano a casa loro; da là potevano vedere il denso fumo nero esalato dall’auto in fiamme; da là potevano osservare l’efficacia della loro azione criminale; da là potevano riprendere la loro vita, dopo averla strappata a Stefano; potevano fare le cose di sempre, come ad esempio allestire una bancarella al mercato, dove vendevano mutande e calzini, sebbene l’attività redditizia fosse un’altra. Poi l’arresto.

Il PROCESSO.
Il 21 novembre del 2019 il Gup di Vibo Valentia, Tiziana Macrì, ha condannato in abbreviato Ezio Perfidio alla pena di 30 anni di reclusione. Il padre, Francesco, alla pena di sei anni di reclusione per distruzione di cadavere e per alcune cessioni di sostanze stupefacenti. Il Pm Filomena Aliberti aveva chiesto la condanna all’ergastolo per l’esecutore materiale dell’omicidio, e otto anni per il padre, che intanto aveva già lasciato il carcere, precisamente il 31 luglio, quando il Gip del Tribunale di Vibo, accogliendo l’istanza dell’avvocato del Perfidio, Francesco Sabatino, ne aveva disposto l’immediata scarcerazione, disponendo il solo obbligo di dimora con rientro notturno.
Ora si va verso il processo d’appello eamare sorprese potrebbero attendere i familiari di Stefano. Innanzitutto, l’autore dell’omicidio potrebbe ottenere uno sconto di pena. Per Francesco Perfidio potrebbe addirittura profilarsi l’archiviazione, così come sta avvenendo per la figlia Sonia. Quindi, ad oggi, l’omerico Nessuno avrebbe distrutto il cadavere di Stefano, consumato in una irrituale e blasfema pira che di mitologico non ha nulla se non una proverbiale sete di sangue.
LA DECISIONE DEL TRIBUNALE DEL RIESAME E’ FONDATA?
Il Tribunale del riesame di Catanzaro, il 22 novembre 2018, a fondamento del rigetto dell’appello proposto dalla Procura della Repubblica di Vibo Valentia avverso l’ordinanza emessa dal Gip dello stesso Tribunale in data 31 agosto 2018, nei confronti di Sonia Perfidio, accusata di essere stata alla guida della Fiat Panda bianca in occasione dell’omicidio e della distruzione del cadavere di Stefano, così argomenta: “L’elemento indiziante a carico di Perfidio Sonia- l’avere questa affermato, all’interno della saletta della caserma dei Carabinieri di Tropea, (in data 20 luglio 2018), in un colloquio con la cognata De Caro Mariangela, moglie di Perfidio Ezio, che ella si sarebbe trovata alla guida della Panda (“la Panda la guidavo io…” non si apprezza in punto di raggiungimento della gravità indiziaria in ordine alla ipotizzata imputazione di concorso nella distruzione del cadavere di Piperno Stefano; invero l’affermazione è stata resa nell’ambito di un colloquio in cui tutti i soggetti presenti nella saletta, e quindi anche le menzionate Perfidio Sonia e De Caro Mariangela, fanno particolare attenzione a non far trapelare nulla delle loro conversazioni , e, quindi, non è dato comprendere se l’affermazione sia riferita alla vicenda relativa alla uccisione di Piperno ed in quale fase potrebbe avere luogo l’inserimento di Perfidio Sonia.
Ma a quale altra vicenda l’affermazione, secondo il Tribunale, è riferita? E se non era riferita all’omicidio che motivo c’era perché Sonia parlasse a bassissima voce? Il padre di Stefano, il professore Piperno, in una lunga e ben articolata argomentazione, affronta punto per punto la decisione del Riesame, mettendo in evidenza dei punti che meritano di essere analizzati.
Si parte dalle intercettazioni, perché è proprio basandosi su quelle che il Riesame ha respinto la richiesta del Gip di Vibo in merito al rinvio a giudizio di Sonia Perfidio.
LE INTERCETTAZIONI
Estate 2018. La Perfidio ed altri soggetti ad essa collegati si trovano in una stanza presso la caserma dei Carabinieri di Tropea. Stanno aspettando di essere interrogati, proprio in merito all’omicidio di Stefano; sono perfettamente consapevoli di essere intercettati, ma forse non immagino la presenza di telecamere nascoste che riprendono i loro labiali quando parlano a bassa voce per non essere ascoltati.
ORE 19:31:26.
Sonia con un fischio attira l’attenzione della cognata Mariangela (moglie di Ezio) e gesticolando particolarmente con le mani dice contemporaneamente a bassissima voce (ma si intuisce simultaneamente anche il labiale):
Sonia: “…la Panda la guidavo io…!”
Mariangela: “… Tu…?
Sonia: “…la guidavo io” (facendo cenno di sì con la testa) …
Se la conversazione non era riferita alla vicenda dell’omicidio del ragazzo ed al trasporto dello stesso sul luogo della distruzione del suo cadavere, il Tribunale, -nel momento in cui si esprime secondo scienza e coscienza- quanto meno, dovrebbe spiegare per quale motivo Sonia non parla con voce normale e chiara ma si esprime gesticolando, parlando a bassissima voce e dicendo che era lei a guidare la Panda.
Continua il Tribunale del Riesame: “ Va segnalato che l’affermazione di Perfidio Sonia, di essere stata alla guida della vettura Fiat Panda, è stata rivolta a De Caro Mariangela, suscitando sorpresa per tale notizia (“ …tu…”), circostanza che deve essere correlata con la constatazione che De Caro Mariangela è la moglie di Perfidio Ezio, ed appare molto improbabile che quest’ultimo, ritenuto quale esecutore dell’omicidio, non abbia riferito alla moglie i termini della vicenda, quanto meno al fine di preparare una comune versione dei fatti per non danneggiare l’uno o l’altro componenti del nucleo familiare dei Perfidio, per essere tutti consapevoli, al momento della convocazione da parte delle forze dell’ordine, della maturazione, organizzazione ed esecuzione dell’omicidio nell’ambito dello stesso nucleo familiare.”
«Il Tribunale, insuperabile specialista nello spezzare il classico capello in quattro -afferma il professore Piperno- pur di arrivare a dichiarare l’innocenza di chi, notoriamente, ormai da tempo ha perso il candore della nascita, non spiega come mai Sonia insiste nel confermare “… la Panda la guidavo io…”».
Il dolore di un padre è da comprendere, ma alcuni dubbi sono estremamente concreti. «Come mai Sonia- argomenta ancora il padre di Stefano- insiste nel puntualizzare quella espressione? Secondo il ragionamento del Tribunale, Mariangela De Caro era obbligata a sapere tutto quello che combinava il marito?»
«Se Sonia- osserva il professore Piperno- riferiva alla cognata un fatto lecito e non attinente all’omicidio non era, forse, più che ovvio e naturale esprimersi con voce normale e con la massima trasparenza, come fanno abitualmente le persone civili? Ma al Tribunale non interessano queste sottigliezze e quisquiglie. Da famiglia atrocemente offesa, gradiremmo una risposta».
Ma c’ è un’altra intercettazione, su cui il Tribunale non fa il minimo accenno, pur essendo esplicita e chiara.
ORE 20:57:10: (ricominciano a parlare con tono di voce normale ed affrontano argomenti vari)
ORE 20: 58: 04:
Marica (sorella di Sonia): … (incomprensibile) “chi guidava la macchina…?”
Salvatore Colombo (marito di Marica): “Sonia… Sonia guidava…!”
Anche Salvatore Colombo conferma, senza tentennamenti, quanto già affermato dalla diretta protagonista. «Il Tribunale ignora- scrive il professore Piperno- Eppure Salvatore, rispondendo alla moglie, è abbastanza chiaro ed esplicito, e senza possibilità di equivoci».
ORE 22:35,10
Francesco D’Ambrosio, (marito di Sonia), riferendo alla moglie le domande che gli sono state poste dagli inquirenti, ad un certo punto, afferma: “…e qui ti ho salvato…”
Da che cosa Francesco D’Ambrosio ha salvato la moglie Sonia Perfidio? Se non aveva svolto alcun ruolo nel fatto omicidiario, da che cosa Sonia Perfidio doveva essere salvata?
«Il Tribunale- si legge nell’argomentazione di Gregorio Piperno- non ha letto queste intercettazioni? Il Tribunale non aveva il dovere di dare una riposta, o le vittime stanno su un piano inferiore a quello dell’imputato?».
Si legge ancora nell’ordinanza del Riesame: “Né a parere del Collegio, un arricchimento, tanto da farlo assurgere a gravità indiziaria, dell’elemento costituito dalla dichiarazione captata potrebbe provenire dalla constatazione che a bordo della Panda, ripresa il 19 giugno 2018 alle ore 15:47:/15:48 nella direzione di marcia SP28- luogo di rinvenimento del cadavere carbonizzato di Piperno Stefano, vi fossero due persone, poiché i frame non consentono di pervenire alla identificazione degli occupanti” .
E qui arriviamo ad un altro punto fondamentale della questione, impeccabilmente sottolineata dal padre di Stefano: «gli inquirenti non avevano l’obbligo di pervenire alla identificazione degli occupanti dell’auto? Il Tribunale non aveva l’obbligo di far analizzare e decifrare i due frames? Per il delitto di Yara Gambirasio sono state sottoposte all’esame del DNA circa 1600 persone e per Stefano Piperno non si è riusciti ad analizzare e decifrare due frames?»
Comprensibile che per la famiglia Piperno sia difficile accettare come serio e rispettoso del suo dolore tutto questo.
Continua il Tribunale: “Allo stesso modo, non possono trarsi argomenti a sostegno del concorso di Perfidio Sonia alla distruzione del cadavere di Piperno Stefano, dalla constatazione che Perfidio Sonia abbia fornito agli inquirenti una versione contrastante con l’analisi del traffico telefonico e dei movimenti dei veicoli, poiché una tale situazione potrebbe trovare giustificazione nella constatazione della consapevolezza, da parte dei componenti la famiglia Perfidio, della riconducibilità dell’omicidio all’ambiente familiare, a cui si accompagnava la determinazione di porre in atto manovre tendenti ad allontanare eventuali sospetti sui membri della famiglia Perfidio”
Ma se Sonia era estranea alle fasi della distruzione del cadavere, perché non ha detto chiaramente dove si trovava in realtà in quel pomeriggio?
«La logica del ragionamento del Tribunale- dichiara Piperno- è oggettivamente discutibile». Agli occhi della famiglia di Stefano deve apparire orribile che il Tribunale dichiari che la versione di Perfidio Sonia trovi una tale giustificazione.
Conclude il Riesame: “Quanto esposto, che pure prescinde dalla questione relativa alla inutilizzabilità, per violazione dell’articolo 63 c.p.p., delle dichiarazioni rese da Perfidio Sonia, conduce al rigetto dell’appello del Procuratore della Repubblica di Vibo Valentia”.
Ma ecco il testo integrale dell’art. 63 c.p.p.
1. Se davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria una persona non imputata ovvero una persona non sottoposta alle indagini rende dichiarazioni [351, 362 c.p.p.] dalle quali emergono indizi di reità a suo carico, l’autorità procedente ne interrompe l’esame, avvertendola che a seguito di tali dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti e la invita a nominare un difensore [96-97 c.p.p.]. Le precedenti dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona che le ha rese [191 c.p.p.].
2. Se la persona doveva essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato [60 c.p.p.] o di persona sottoposta alle indagini [61 c.p.p.], le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate [191 c.p.p.].
«É quanto meno strano– osserva in conclusione Gregorio Piperno- che il Tribunale faccia riferimento all’art. 63 c.p.p.: Sonia, nello specifico, non ha reso alcuna dichiarazione “davanti all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria”, ma è stata intercettata all’interno della saletta della caserma dei Carabinieri di Tropea. Una cosa è l’intercettazione, altro è la dichiarazione».
L’ergastolo che avrebbe dovuto essere comminato ad Ezio Perfidio lo stanno vivendo i familiari di Stefano Piperno, il padre, la madre e il fratello Alberto. Per loro un ergastolo di dolore.
E come se non bastasse il “fine pena mai”, questi genitori combattono strenuamente per ottenere giustizia; affrontare le contorte trame delle leggi abilmente composte da abili operatori del diritto.
L’omicidio di Stefano è un grave fatto di cronaca che apre uno squarcio sul fitto sottobosco dello spaccio di droga che domina Nicotera e l’intero territorio. Un mercato che permette a centinaia di persone di intascare lauti guadagni; sono attività spesso parallele a mestieri svolti abitualmente, ma che di fatto consentono di vivere una vita almeno una tacca sopra le loro reali possibilità. Chi è che tiene le fila di questo enorme giro d’affari, è inutile sottolinearlo, sono le cosche mafiose che dominano il territorio: perché uno spacciatore può anche mettersi “in proprio” e diventare un piccolo, o grande, imprenditore della droga, ma la sua attività non potrà mai svilupparsi senza la super visione del fornitore principale. Queste sono le regole del gioco. La morte di Stefano svela quanto i commercianti di morte non abbiano scrupoli nell’agire; svela la tragicità di un contesto dominato da un’economia occulta che mette in conto l’uccisione di persone malauguratamente rimaste impigliate nella sua rete. Ad aggravare il quadro, il fatto che il territorio sia sguarnito di presidi di legalità.

Gli appelli degli esponenti delle Forze dell’ordine e delle istituzioni rivolti ai cittadini si sprecano. L’insistente invito è di denunciare. C’è chi è pronto a farlo, mettendo anche in pericolo la propria vita. Il coraggio, la fermezza, lo scatto di dignità non mancano alle persone perbene: ma il dubbio è instillato nella mente dall’esito di fatti di cronaca, spesso a sfavore delel vittime. Anche i cittadini, quindi, hanno un appello da rivolgere a chi di competenza: che le vittime siano tutelate, che i morti ammazzati abbiano giustizia, che chi ha subìto un’atroce perdita per mano della criminalità organizzata e dei suoi luogotenenti sul territorio trovi almeno un po’ di consolazione, la vicinanza dello Stato, meno garanzie per i delinquenti e più rispetto per le vittime che non sono degli “zombie”, ma persone che avevano una vita da vivere, un futuro da esplorare, un domani da affrontare. E ora vivono nel ricordo di chi le ha amate, nel rispetto e nell’amore che alimenta un disperato bisogno di giustizia.