Lo zelo con cui i consiglieri regionali hanno provato a ripristinare la legge sui vitalizi è inversamente proporzionale all’indifferenza usata nei confronti dei diritti delle vittime della mafia. A suffragare questo assioma la vicenda relativa a una legge governativa che prevede l’assunzione dei congiunti delle vittime di mafia negli enti pubblici, a cominciare dalla Regione.

Una normativa codificata nel 1980 e che via via negli anni si è arricchita di nuovi codici, fino ad approvare all’attuale legge, quella del 1999, secondo la quale non solo le vittime di terrorismo ma anche quelle della criminalità organizzata hanno diritto ad essere inserite in speciali liste, le cosiddette categorie protette, che permettono loro di poter essere assunti in vari ambiti lavorativi, potendo godere, altresì, della precedenza su altre categorie protette.

Gli aventi diritto possono accedere nelle amministrazioni pubbliche (dal primo al quinto livello retributivo) e nell’ambito del personale contrattualizzato del comparto Ministeri (dal sesto all’ottavo). I figli, i fratelli, i genitori di persone decedute a causa della mafia, o rimaste invalide, dovrebbero usufruire dunque di un diritto previsto dallo Stato che però, specialmente in Calabria, terra che in fatto di vittime di mafia può sfoggiare dei numeri probabilmente secondi solo alla Sicilia, viene continuamente e ingiustificatamente disatteso. E, sia ben chiaro, è un diritto, e non certo un privilegio: un concetto, questo, che i congiunti delle vittime hanno voluto ribadire lo scorso 18 febbraio, a Roma, davanti alla Camera, in una manifestazione promossa da Libera. Un sit-in organizzato per chiedere più attenzione da parte delle istituzioni e della politica verso le persone cui è stato riconosciuto lo status di vittima di mafia. Alle commemorazioni solenni, nel giorno del ricordo di un eccidio mafioso, deve seguire la concretezza dell’azione affinchè le manifestazioni antimafia non siano uno psicodramma che permetta ai ministranti di mettere una toppa alla loro coscienza o di sfoggiare facce tristi e solenni. Deve seguire la concretezza, che finora non si è vista. Tra le tante storie di diritti negati, raccontiamo quella dei familiari di Filippo Ceravolo.

Una vicenda, quella di Filippo, ormai contemplata nel novero di quegli atroci delitti di mafia che hanno insanguinato la Calabria. I familiari del 19enne sorianese non hanno ancora visto giustizia. Lottano ogni giorno per ottenerla e lottano anche per tentare di far rispettare le leggi scritte appositamente per i congiunti delle vittime, ma si imbattono nei labirinti della burocrazia e un immobilismo politico che contrasta clamorosamente con i famosi 117 secondi impiegati dai consiglieri regionali per reintrodurre la legge sui vitalizi.

Siamo nel 2012. Filippo è un bravo ragazzo di 19 anni. Lavora con papà Martino nei mercati: hanno una bancarella di dolciumi. Ogni mattina padre e figlio si alzano prestissimo per recarsi nei vari paesi dove mettono su il loro banco. Un lavoro faticoso ma che fa vivere dignitosamente la famiglia Ceravolo. La tragedia, però, è alle porte. Il 25 ottobre di quell’anno Filippo viene brutalmente assassinato, raggiunto da una raffica di proiettili mentre si trovava in auto con Domenico Tassone, soggetto collegato al clan degli Emanuele, famiglia al centro di una faida di ndrangheta. Pare che l’obiettivo dei killer fosse proprio Tassone, ma a morire è stato Filippo.

Il ragazzo aveva accettato un passaggio in auto per rientrare a Soriano da Pizzoni. Certo mai avrebbe immaginato che le pistole dei killer fossero puntate contro quell’autovettura; mai avrebbe pensato di finire ammazzato come un boss di mafia: lui, ragazzo innocente, una vita improntata sul lavoro semplice e onesto e, soprattutto, lontano da ambienti criminali. Filippo spirò in ospedale. La sua agonia durò poche ore. E mentre la sua vita si concludeva nella disperazione dei familiari, egli rinasceva come simbolo immortale: nel 2014 è stato infatti ufficialmente riconosciuto vittima innocente di mafia. Consegnato all’orribile lista dei cruenti delitti perpetrati dalla brutalità ndranghetista, il vuoto lasciato nella sua famiglia è, come si dice in questi casi, incolmabile.

Al dolore per la sua perdita si aggiunge una giustizia che non è ancora arrivata. Ma non solo. Ai familiari di Filippo vengono ancora negati i diritti codificati proprio per i congiunti delle vittime del terrore mafioso. Papà Martino ha chiesto che venga rispettata la legge dedicata, ha già inoltrato regolari istanze nel 2017 e del 2018. La risposta è stata un inqualificabile silenzio.

Ma lui ormai non ce la più a svolgere il lavoro di ambulante: un lavoro usurante, reso ancora più complicato dal continuo girovagare di paese in paese. E non ci sono più nemmeno le condizioni psicologiche, oltre che fisiche, ad aiutarlo nella conduzione di questa attività. Martino si è rivolto alle istituzioni, alla politica, sempre presente negli eventi commemorativi, ma latitante quando c’è da rimboccarsi seriamente le maniche. In una regione in cui si impiega una manciata di secondi per far approvare una legge a uso e consumo dei politici, non si trova il tempo per mettere in azione una normativa che esiste da decenni e che darebbe sollievo a delle persone la cui vita è stata distrutta dalla criminalità organizzata.